Proprio quest'ultimo è protagonista già dal titolo in questo suo nuovo lavoro più di quanto lo era stato nei precedenti, tanto da riportarla di fatto sulle scene sotto forma di un possibile ibrido fra Grouper e Julia Holter. “Syzygy” è dunque senza dubbio il disco più ambizioso di Dalt, il primo in cui l'intento evidente è quello di spingersi oltre, di superarsi. Accantonato quasi in toto il torpore ambientale di quel “Commotus” che l'anno scorso aveva convinto senza esaltare, ecco la voce ora intenta a dialogare (principalmente smarcandosi) con un impianto sonoro ridotto ai minimi termini e composto principalmente da battiti elementari, strutture melodiche accennate, loop di arpeggiatori e una (non troppo lunga) serie di sample e campioni vari.
Il risultato, a prescindere dal coraggio della scelta estetica, finisce in realtà per condurre quasi sempre dritto alla noia: la litania austera di “Inframince”, i sussurri lividi di “Levedad”, le pulsazioni elementari della conclusiva “Mirage”, le spirali sintetiche di “Vitti” cercano il dialogo con la complessità per mezzo del mentalismo, senza operare lo step necessario per andare oltre lo status di ambiziosi quanto elementari fallimenti. Va ancora peggio quando questi ultimi si fanno autenticamente grossolani: è il caso dell'iniziale ouverture per metallofoni sintetici e voce di “Glosolalia”, del lungo mucchio di stratificazioni abbozzate e montate alla bene e meglio di “Volavérunt” e della coppia di miniature “Edgewise”-“Murmur”, che si tuffa in un sol colpo su noise, nastri magnetici e musique concrète come fossero velluto morbido e accogliente.
Il solo bagliore di luce che l'ascolto concede si materializza nella (stavolta troppo breve) ballata “Soliloquios”, il brano decisamente meno pretenzioso e più semplice dell'intera raccolta, costruito nella forma di una vera e propria folksong per chitarra e voce accompagnata da un battito liquido e da onde sonore in dissolvenza. Episodio che non basta certo da solo a risollevare le redini del più tipico fra i “passi più lunghi della gamba”, di quello che sembra più che mai un tentativo, da parte di Dalt, di personificare dal nulla la Laurie Anderson del futuro, approcciando, non senza una certa presunzione, forme sonore ardue e pericolose pure per chi ha investito una carriera ricercando e sperimentando su di esse (e a tutt'oggi spesso incappa in fallimenti non dissimili da questo).
La speranza, considerando la prolificità dell'artista, è quella di un repentino dietrofront.
(30/12/2013)