Con le miriadi di giovanotti costretti ad addobbarsi da amish, sperduti in capanne di legno a rimestare amori perduti, ancora rinchiusi in cameretta a giochicchiare con la pianola del primo compleanno, tocca ad artisti più attempati alzare la voce e raffigurare con foga e passione il diavolo fagocitante che presiede alle faccende degli uomini falsamente liberi. Ed è così che il rap di “More Money, More Fire” costruisce la scenografia delle riot londinesi – un’umanità diseredata a cui l’unica risposta che viene data è: “Fight Them Back”.
Nel caso di Steve Mason, “alzare la voce” è un concetto da intendersi in senso altamente metaforico, e “Monkey Minds In The Devil’s Time” è infatti un’opera teatrale sfuggente e quasi confusa, la cui scena è però illuminata dalla grande scrittura pop della voce della Beta Band.
Spoken word sepolcrali, neofolk introducono il pop suadente e obliquo del disco, che ricorda l’elegante, sublime, affascinante intellettualismo dissimulato degli Elbow di “The Seldom Seen Kid” (“Lie Awake”) – quella grandeur da britpop borghese (“Never Be Alone”); la dolce, compassionevole malinconia di “Come To Me” potrebbe essere quella di un brano scritto da Gerard Love; anche il coro gospel di “Lonely” viene presentato con la classe del pop Beck-iano della Beta Band, così come nel Motown plastico e sussurrato di “Fire!” e nel country anni 70 di "Oh My Lord".
Insomma, altro che popstar arrabbiata con la cartuccera piena di slogan: “Monkey Minds In The Devil’s Time” è un vero musical della protesta. Fatto non per spettacolarizzare un avvenimento, per sfruttare con facilità l’inerzia dei movimenti giovanili – piuttosto, con la consapevolezza del potere che un lavoro d’arte può dare a questi ultimi.
Certo, qualcuno potrebbe pensare che, senza i gabbiani, le telecronache brasiliane di Formula 1 e tutto il corredo che questa pop opera di venti brani si porta dietro, la scrittura di Mason sarebbe rimasta ed emersa in maniera più ordinaria ma più soddisfacente. Ma in questi casi va anche rispettata la volontà espressiva e narrativa dell’artista, al di là delle esigenze “alimentari” dell’ascoltatore.
18/03/2013