Nel carosello di cinematiche atmosfere spettrali e onirismi in dissolvenza racchiusi in una coriacea scorza wave, l'esordio degli Still Corners riuscì comunque a tenere testa alla mole di uscite proveniente da oltreoceano grazie a una spigliata appropriazione dei riferimenti di partenza (gli immancabili Cocteau Twins e Cure su tutti), ma anche grazie alle flessuose qualità vocali di Tessa Murray, incantevole ninfa tanto quanto cupa e riflessiva cantastorie, su cui s'imperniava gran parte del fascino del lavoro. Ed è proprio questa voce, al ritorno in pista con un sophomore piuttosto atteso dagli amanti del settore (e discretamente pubblicizzato dall'etichetta, la stessa Sub Pop che rilascia il materiale dei ben più blasonati Beach House), a fungere da collante tra le due pubblicazioni: lo scarto venutosi a formare nel frattempo li fa quasi sembrare i frutti del lavoro di due band diverse.
Quest'ultima è senz'altro un'iperbole voluta, ma ad ogni modo, vedere i due londinesi, coppia nell'arte e nella vita, superare le fumose barriere del debutto e approdare a una visione più aperta, luminosa e squisitamente pop dello stesso è un passo avanti non da poco, che conferisce alle canzoni quel tocco di modernità che non guasta proprio. Confinate in un angolo le tentazioni darkwave, preponderanti al tempo delle creature di un'ora sola (tant'è che una “I Can't Sleep” e il suo pannello di riverberi cinematici suona quasi come la pecora nera dell'album), la penna di Greg Hughes, mente sonora del duo, vagabonda peregrina in un fluido amniotico nel quale scintille sintetiche Eighties, jingle-jangle all'arrembaggio e rigurgiti chillwave convivono in armonia, senza che prenda il sopravvento una corrente specifica.
Attorno quindi alla verve ritmica del singolo di lancio “Berlin Lovers” (pericolosamente incline alle derive arty di Claire Boucher) o alle pulsazioni circolari dell'ipnotica “Beatcity”, il nuovo corso del dream-pop degli Still Corners è un pullulare di tastierine e sintetizzatori a giocare quando di accompagnamento, quando di contrappunto, con i ricami di chitarra e basso, non sempre l'aspetto più immediato degli arrangiamenti. Dai chiarori ad intermittenza di “All I Know”, alle evoluzioni simil-balearic della title track, il rischio è che siano i disegni sonori, ancor prima che le canzoni, ad arrivare all'ascoltatore: se il pericolo sembra tramutarsi sovente in realtà (già l'iniziale “The Trip”, lunga fuga estatica da oltre sei minuti, ripete insistito lo stesso brillante modulo di note a mo' di drone per tutta la sua durata), ci pensano le teorie folk della minuta “Going Back To Strange”, la dolcezza infinita di “Midnight Drive” e il carisma discreto di “Fireflies” (con l'immancabile armamentario di sospiri vari e quel giro riconoscibilissimo di tastiera a dare il tono) a riportare il disco in carreggiata grazie ad una buona resa melodica, che scongiura lo spettro di un lavoro incentrato esclusivamente sulle atmosfere.
Certo, il fascino velatamente gotico delle origini fatica anche soltanto a essere rintracciato, e un brano come “I Wrote In Blood” qui proprio non si riscontra, ma nel mettersi in gioco, nel cimentarsi con una palette musicale più ampia e stratificata rispetto alle attese, i due inglesi proprio non ci stanno ad essere etichettati come l'ennesimo revival act da un disco e via. Per il futuro, aspettiamoci ulteriori sviluppi da parte loro: questo viaggio potrebbe risolversi alla fine in un'autentica avventura.
(09/05/2013)