La sua storia (in realtà quelle due-tre notizie che hanno fatto il giro della rete accompagnando l'uscita del suo album) ha tutto l'appeal necessario per far sì che la giovane Mackenzie Scott, in arte Torres, lasci un segno non proprio di second'ordine in questo 2013 oramai decisamente entrato nel pieno dell'azione. E forse, nemmeno lei stessa era conscia di quanto simili confessioni, passionali e sofferte, avrebbero incontrato il favore del pubblico, che proprio grazie al passaparola ha fatto del lavoro della statunitense la prima vera sensazione al femminile dell'anno.
Se è comunque vero che l'arte molto spesso si nutre di dolore e di afflizione, senz'altro nell'omonimo esordio della ventiduenne autrice da quel di Nashville di dolore ne si trova a iosa, sparso ben bene tra le dieci canzoni, scritte con assoluta austerità di mezzi e da una mano tecnicamente tutt'altro che navigata. Imbracciata la sua fida Gibson poco più di un anno fa, non appena i suoi genitori hanno racimolato un po' di denaro per potergliela regalare per Natale, la ragazza non ha perso tempo e in men che non si dica, ha tirato su i dieci pezzi che compongono la sua prima fatica, orgogliosamente autoprodotta e ascoltabile integralmente dal profilo Bandcamp. Il resto, è faccenda di questi giorni.
Già dal primo contatto con le canzoni della Scott, ciò che emerge immediatamente è la carica viscerale delle interpretazioni, la potenza lirica di un lavoro che non può, non vuole assolutamente lasciare indifferenti. Senza necessariamente assumere pose da riot grrrl d'altri tempi (che forse sarebbero parse un filo risibili), e insinuandosi nell'alveo delle blueswoman sofferte ma appassionate, che negli ultimi anni sono tornate in auge (grazie anche al traino di una Anna Calvi), Torres racconta, attraverso il timbro sanguigno della sua voce, cronache di dominazione e sopraffazione, di violenza e di quotidiano tormento, con la forza di una profondità disarmante, che non si presentava in questo modo dai tempi della prima Soap&Skin.
La differenza con la scostante austriaca la fa però, più che lo strumento d'elezione, l'approccio: laddove quest'ultima è esplosiva, dirompente, intimamente contraddittoria, la ventiduenne dal Tennessee si accomoda su un registro espressivo severo e composto, in cui l'emotività affiora con moderazione, senza mai prendere il sopravvento. Ne deriva quindi una solida omogeneità d'insieme, per brani composti essenzialmente da voce e chitarra elettrica, che soltanto in rare occasioni acconsentono a contributi esterni (qualche apporto di archi qua e là, ridottissime intercessioni elettroniche), i quali comunque riescono a fornire quell'accento di arrangiamento altrimenti impossibile da rilevare.
Per il resto infatti, il lavoro trova le sue coordinate di riferimento in una commistione di blues bianco, folk sudista e rock alternativo anni Novanta, che a seconda della piega presa dal brano tende a macchiarsi di ispide pennellate country (“Moon & Back”, ma anche le pieghe commosse dell'iniziale “Mother Earth, Father God”; d'altronde, è a Nashville che ci troviamo), a giocare di totale sottrazione bazzicando i lidi di un pop sofisticato e atmosferico (“Chains”), oppure a sfoderare le fosche dinamiche di signore della canzone americana come Cat Power o Lisa Germano (il singolo “Honey”, “Jealousy And I”). Mackenzie riesce quindi nell'intento di conferire a ciascuna canzone la sua cifra caratteristica, tanto che, accostando a ciascuna di esse il tocco caldo e istintivo delle sue interpretazioni, la voglia di gridare al piccolo miracolo è irresistibile.
C'è però un perché, e non è di certo di secondaria importanza per un cantautore: laddove l'istinto permette all'autrice di esprimersi con sconfinata libertà sopra i disadorni canovacci sonori, risultando tutto sommato mai meno che personale, non si può dire invece lo stesso per la scrittura, che pecca invece di un impressionismo volto più alla suggestione istantanea che al corteggiamento a lungo termine. Non sarà quindi poi così strano se, anche dopo ripetuti ascolti, ben poca traccia rimarrà nella memoria delle fluttuanti direttrici melodiche, di una penna a cui ancora sfugge non soltanto un'impronta davvero risolutiva, ma proprio una reale solidità d'impostazione. A conti fatti, una proposta che al momento colpisce più per l'ispirata vena poetica, e per una certa singolarità nelle composizioni, piuttosto che per la vena autoriale.
Il talento non manca, e la Scott pare avere ancora parecchie cartucce a disposizione per le sue future pubblicazioni, ma da un talento simile è lecito aspettarsi molto, molto di più. Per adesso, la giovane chitarrista americana appare come un diamante grezzo, ancora da lavorare.
P.S. I testi sono integralmente disponibili alla lettura qui.
19/03/2013