A giudicare dalla proliferazione di artisti che ha invaso negli ultimi tre anni il mercato internazionale, fra le parole chiave associate all'Islanda (vulcani, ghiaccio, folletti) si potrebbe di diritto aggiungere anche “musica”. Una scena che di nome in nome rivela sempre più tesori nascosti, che ha fatto della ricerca sull'emozione un credo, espressa attraverso una moltitudine di linguaggi differenti, affrancabili a stili e generi ma sempre ben distanti da quei cliché in cui numerosi musicisti nel resto d'Europa finiscono spesso per restare imprigionati.
In questo senso, il terzo lavoro (ma primo marchiato con il proprio nome di battesimo) di Úlfur Hansson può essere visto come una di quelle gemme che risplendono nell'oro, che accecano per la loro incredibile forza emotiva e al tempo stesso propongono una visione ulteriormente nuova degli scenari musicali da cui provengono. Opere che escono di rado e che lasciano un segno indelebile più nel cuore di chi ha la fortuna di assorbirle che nello sconfinato archivio della storia della musica. Nel 2002 ce l'avevano fatta i Sigur Rós con il capolavoro "()", tredici anni dopo è la volta di un musicista della loro scuderia, turnista dal vivo per Jónsi e già autore di un paio di sfortunati ma ottimi lavori a nome Klive.
Ingaggiato dalla Western Vinyl probabilmente sotto velato suggerimento di Jónsi stesso, Hansson estrae dal cilindro sette piccole meraviglie che vanno a collocarsi con una dolcezza encomiabile fra elettro-acustica, musica da camera e ambient. È un disco breve, “White Mountain”, poco più di mezz'ora dall'intensità incredibile e, soprattutto, con tutte le carte in regola per contagiare istantaneamente anche gli ascoltatori meno avvezzi a questo genere di sonorità. Bastano le poche note che aprono “Evoke Ewok” per rendere subito il clima del lavoro: lievi tessiture ambientali su cui si issano arpeggi dal sentore orientaleggiante. Sembra di sentire Forrest Fang duettare con Loscil, in un flusso che prosegue similare fra i campanelli di “So Very Strange”, dove entrano in gioco anche il violoncello e la viola.
I tempi si stringono in “Black Shore” sotto la pioggerellina del vibrafono che dipinge spruzzi colorati su un fondale di field recordings, ricordando da vicino i saliscendi gioiosi di provenienza giapponese (Lycoriscoris e Ametsub). “Heaven In A Wildflower” è il vertice assoluto, una parentesi cameristica che rappresenta il picco emotivo in condivisione con la title track e le sue esplosioni contenute, prima che l'effusione fiatistica di “Knoll Of Juniper” e la pura ambient (siamo dalle parti dell'ultimo Taylor Deupree) concludano congelando le emozioni in un tramonto di ghiaccio. Resta vivido il ricordo di un disco strepitoso, in grado di trattare merce spigolosa e complessa con la semplicità di un solo, fondamentale organo, che in molti spesso dimenticano di possedere e che gli Islandesi ci stanno aiutando a riscoprire attraverso le forme musicali più svariate: il cuore.
Un grazie, a Úlfur e a chi l'ha preceduto sull'Isola di Ghiaccio, è spontaneo prima ancora che doveroso.
(18/03/2013)