Hauschka

Abandoned City

2014 (Temporary Residence)
modern classical

Sebbene il fervente talento di Volker Bertelmann, in arte Hauschka, fosse innegabile sin dagli esordi – già dieci anni fa – solo in tempi più recenti ne è arrivata la decisiva conferma (“Salon Des Amateurs”) presso un circuito di ascoltatori abbastanza popoloso. È un nome che si attende al varco, nella speranza di una prova che lo consacri, un traguardo che il collega Nils Frahm ha già meritevolmente raggiunto e per il quale Bertelmann possiede tutte le credenziali.
Quali punti forti nella sua proposta? Anzitutto uno stile che deve poco o nulla ai grandi maestri del Novecento, sulla cui scorta hanno trovato fortuna molti altri esponenti della modern classical; al limite una costante, sottintesa riconoscenza per l'intuizione del piano preparato, la cui ricchezza – come sempre nel caso di Cage – è nell'inesauribile potenziale di variazioni. Hauschka non lascia però spazio all'indeterminatezza, al contrario si immerge sempre più in un laborioso processo di looping e sovraincisioni, trasformando “Abandoned City” in un ineccepibile meccanismo a orologeria, con ingranaggi ben oliati e attentamente sincronizzati.

Ed è questo, forse, il secondo tratto più distintivo – e assieme controverso – della musica di Bertelmann, che sempre più si avvicina all'esercizio di bravura o, peggio, alla curiosità per nerd di YouTube. Il dinamismo delle sue geometrie solide sfocia ormai in una minimal techno analogica, non più solamente calcolata ma finanche ingessata: l'applicazione dei diversi oggetti e materiali alle corde del pianoforte non ha più il fascino giocoso di una volta, bensì diventa un mero strumento per produrre singole particelle sonore di pattern pressoché immutabili.
Una struttura già di per sé anaffettiva alla quale, talvolta, vengono applicati refrain netti alla Kraftwerk (“Agdam”, “Sanzhi Pod City”) che non lasciano più dubbi sul processo di “automazione” che la musica di Hauschka sta subendo – in particolare “Thames Town” soffre di una linearità e una pedanteria quasi dilettantesche. A stemperare l'atmosfera concorrono soltanto dei vaporosi delay, che alla lontana richiamano il mood rarefatto dei dropped pianos di Tim Hecker (“Elizabeth Bay”), col risultato però di coprire eccessivamente l'area acustica.

Cosa manca, in definitiva, ad “Abandoned City”? L'anima. Quell'anima che si è intravista, semmai, nel modesto extended play “Youyoume”, la cui ispirazione è più facilmente imputabile ai delicati arredamenti di Satie – e che qui risuona brevemente nel bozzetto minimalista “Craco”. Piuttosto, viene spontaneo accontentarsi anche di un rilassato pas de deux con Hilary Hahn, senza l'anelito a una perfezione formale che non riesce più a nascondere un vero handicap: se Hauschka agisse per sottrazione, probabilmente rimarrebbero gli stessi cliché nei quali incappano tanti altri neo-compositori assai meno in vista. Con ciò non si intende qualificarlo come l'ennesimo bluff, semmai constatare che, di questo passo, il coraggio e la novità della sua proposta andranno disperdendosi senza soluzione di continuità – e sarebbe un vero peccato.

20/03/2014

Tracklist

  1. Elizabeth Bay
  2. Pripyat
  3. Thames Town
  4. Who Lived Here?
  5. Agdam
  6. Sanzhi Pod City
  7. Craco
  8. Bakersville
  9. Stromness


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