E invece l'ascesa si era interrotta bruscamente nel silenzio, Dru era scomparsa dalle scene e del destino dei Mirabilis non si era saputo più nulla. Fino a quando, meno di un mesetto fa, Projekt aveva annunciato l'imminente arrivo di questo “»Here And The Here After«”, disco che sorprende ulteriormente per la decisa rottura con i precedenti dell'esperienza Mirabilis. Se nel passato del progetto l'ugola di Dru aveva infatti cavalcato possenti architravi gotico-neoclassiche, qui le due si reinventano discepole meno esoteriche dei primissimi Unto Ashes, rivedendo l'impianto generale in chiave puramente neo-folk e ri-arredando le proprie stanze con percussioni e pennellate sintetiche.
Sedici brani, decisamente troppi, compongono la tracklist, equamente divisi fra calchi in stile di tradizionali folk e ottime canzoni nel senso più moderno e stretto del termine. Dru e Summer si confermano in ogni caso maestre nel praticare incantesimi in forma musicale: ne sono esempi calzanti la splendida elettro-ballad “The City”, la sognante apertura di “Hara, il mantra hindi di “Lokah Samastah Sukhino Bhavantu” e la passeggiata a tempi misti fra i banchi di nebbia di “Sanctuary Of Mind”. Episodi che, non a caso, fanno parte della seconda delle due categorie di cui sopra.
Un potenziale minato però da una zavorra che aumenta a dismisura il peso complessivo della tracklist, e che si manifesta in gran parte nella seconda metà del disco. Sono in generale i calchi di cui si diceva a peccare spesso e volentieri di originalità: ma se l'intermezzo normanno di “Le Sorbier de l'Oural” e il canonico omaggio ai Dead Can Dance di “By the Waters Of Babylon” diluiscono ottimamente i passaggi più corposi, il quartetto a cappella che parte dalla (pure ottima) “Da Znae Moma” e si conclude con la nipponica “Takeda No Komoriuta” dà luogo a dieci interminabili minuti scarsi di puro stallo.
L'esagerazione madrigale di “Can She Excuse My Wrongs” torna poi senza successo a cercare la strada dell'eredità classicista, mentre le interessanti venature trip-hop non riescono a sollevare le mancanze compositive della conclusiva “Permafrost”. Non brilla nemmeno il cameo di Monica Richards sulla spenta title track, mentre sui remix a cavallo tra trance e new age posti in coda è il caso di limitarsi a soprassedere. C'è il (solito) indiscutibile talento, c'è da premiare la voglia (ben meno usuale) di cercare nuove soluzioni sonore. Manca invece, stavolta, un equilibrio che renda grazia a quasi un'ora di musica. Le basi su cui proseguire (e da perfezionare) sono però ben solide.
(03/11/2014)