Fa un effetto strano guardare oggi la discografia dei Pineapple Thief. Sembra altrettanto strano leggere sui comunicati stampa che "Magnolia" è il decimo disco della band, non fosse altro perché dei precedenti nove ci si ricorda fondamentalmente a fatica di tre, nessuno dei quali particolarmente esaltante. Sì, va detto che il quartetto guidato da Bruce Soord è (e, forse a maggior ragione alla luce di questo nuovo lavoro, resta) il grande mistero di casa Kscope: un'etichetta che ha saputo abbracciare fra le sue fila il meglio del cosidetto neo-prog, o per lo meno di quella branca inaugurata dal boss Steven Wilson e dai suoi Porcupine Tree, che sceglie di scommettere su una band che fa dell'ordinarietà il suo tratto somatico più evidente. Misteri.
Già, perché se c'è qualcosa per cui i Pineapple Thief si sono distinti nella seconda metà (quella "in vista", per così dire) della loro carriera, è proprio il loro essere una band da college prestata al prog, un gruppo che con qualche orpello in meno, qualche sincope in più e un paio di singoloni non avrebbe avuto difficoltà a spopolare per lo meno fra le chart statunitensi. E a passare magari come nuova meteora del rock di consumo - quello che oggi vive un periodo di incredibile magra, ma che nel decennio precedente era fra i fenomeni di punta del mainstream. Invece Soord e compagni hanno scelto la via "difficile" del(l'attitudine) prog e c'è poco da fare, piaccia o non piaccia, hanno sempre dato l'impressione di trovarsi a disagio, fuori luogo, nel posto sbagliato.
Il fatto che "Magnolia" venga annunciato come il disco in cui (finalmente!) la band decide di aprirsi a sonorità nuove e lontane da quel "All The Wars", con cui due anni fa avevano toccato il fondo, non può dunque che risultare la più incoraggiante e confortante delle presentazioni. E il disco effettivamente altro non è se non un'onesta dimostrazione di cosa i Pineapple Thief avrebbero potuto essere se avessero scelto, come hanno fatto i Muse prima di loro, di seguire, mediante una strada decisamente più facile e accessibile, la loro natura: un'ottima band per le classifiche, appunto, in grado di coniare un pop-rock impreziosito qua e là da venature heavy e da sussurri prog. Una band in grado di sfornare pezzi-killer come l'iniziale e roboante "Simple As That" o l'irresistibile meteora "Alone At Sea".
L'intero disco è uno scrigno di variegati esercizi pop, in grado quasi sempre di tenere anche quando i ritmi si abbassano pericolosamente (e ciò avviene spesso), come nel caso della pregevole title track, della malinconica "Season's Past", del corale di "A Loneliness" o della più barocca "Don't Tell Me". Paradossalmente, i lenti sono più numerosi dei pezzi sostenuti, individuabili nel buon mix di furia e grazia di "Breathe", nella tempesta focosa di "Sense Of Fear" (unico autentico e per altro riuscito comeback al passato) e nell'ottimo crescendo conclusivo di "Bond", senza mezzi termini la miglior cosa mai partorita dalla penna di Soord. E fa sorridere il fatto che, in una dimensione sonora finalmente adatta, quella che fino ad oggi avevamo conosciuto come la band neo-prog più naif del pianeta riesca addirittura a risultare elegante e a fare sfoggio di classe. Era ora.
05/10/2014