Sin dal principio della sua carriera, quando ancora registrava in uno studio embrionale con pochi mezzi e la “copertura” della prima, finta line-up dei Porcupine Tree, Steven Wilson ha voluto precisare che la sua musica non era catalogabile come progressive. Una sorta di battaglia personale, quella dell'ormai portabandiera della rinascita del rock anni Settanta nel nuovo millennio, che non ha or vero mai trovato un riscontro credibile nella sua musica. Se i primi Porcupine Tree, infatti, subivano un'evidente e innegabile influenza da parte dei Pink Floyd della prima era, con l'evolversi della loro storia e la trasformazione in band vera e propria, Wilson e compagni sono arrivati a divenire addirittura l'emblema del neo-prog tutto, conducendo pure per mano del leader altre formazioni su quella strada (Opeth e Anathema, tanto per dirne due) fino all'ultima deriva spigolosa che sarebbe surreale rifiutarsi di accomunare a quella contemporanea degli inossidabili King Crimson.
Come si aveva già avuto modo di affermare nella recensione del live “Octane Twisted”, da ormai tre anni i Porcupine Tree di fatto non esistono più, tanto che i singoli membri hanno proseguito o avviato progetti solisti tutt'altro che minori (a tal proposito, Richard Barbieri sta per partire in tour con il frontman dei Marillion Steve Hogarth, con cui ha pure pubblicato l'anno scorso un bellissimo “Not The Weapon But The Hand”). Wilson, negli ultimi tre anni, si è in particolare focalizzato sulla carriera solista a suo nome, arruolando fra le sue fila una band tutta nuova e di notevole spessore (Guthrie Govan alla chitarra, Nick Beggs al basso, Adam Holzman alle tastiere, Marco Minneman alle percussioni e il longevo Theo Travis ai fiati), che dal vivo è riuscita in più d'un occasione ad eguagliare i Porcupine Tree in intensità e affiatamento.
Dopo questa necessaria prefazione, facciamo un passo indietro. La prima testimonianza del Wilson solista risale a quell' ”Insurgentes” del 2008 che aveva tentato di oltrepassare in crudezza il già non troppo docile “Fear Of A Blank Planet” della band, uscito un anno prima. Poi, dopo lo hiatus successivo a “The Incident”, arrivò quello che può essere considerato il primo vero lavoro di quella che è oggi la pelle principale del Nostro: si parla di “Grace For Drowning”, un quasi-capolavoro che (ancor più dal vivo) era riuscito a spazzar via in un sol colpo i vari (e ottimi) “The Incident”, “Deadwing” e “In Absentia”. Un disco – e qui stava la novità – di puro progressive-rock, che riusciva addirittura a ricordare i tempi ormai abbandonati di “Stupid Dream” e “Lightbulb Sun”. Un passo indietro con la confidenza di anni in più nel bagaglio d'esperienza, e forse il punto più alto del Wilson “progressivo”. Ma, soprattutto, la negazione ultima della tesi tanto fomentata dallo stesso.
Dopo quell'album, nemmeno lo stesso musicista aveva avuto il coraggio di scollarsi di dosso un'etichetta ormai troppo evidente. E, neanche a farlo apposta, questo suo nuovo e largamente annunciato lavoro segna il matrimonio definitivo e inscindibile fra il suo nome e il progressive rock. Un album nostalgico, che come pochi guarda indietro, non solo nello stile e nelle strutture ma pure nei suoni, nel clima e nelle tematiche. Un disco che, fosse uscito nel 1980, avrebbe potuto tranquillamente spalleggiare con chi a quel tempo non aveva dimenticato King Crimson, Genesis, Yes e (sì, pure loro) Van Der Graaf Generator.
“The Raven That Refused To Sing (And Other Stories)” proietta già dal titolo nel mondo della fantasia e del sogno: non più, però, quello alienato e guidato dall'lsd di “Jupiter Island” e “Radioactive Toy”, bensì quello spontaneo e fiabesco dei “dinosauri” dell'epopea prog. Viene facile pensare che il contributo decisivo a questa mutazione l'abbia dato l'incontro con l'immarcescibile Steve Hackett, i cui ultimi lavori ethno-prog sono richiamati in più d'un occasione. Così “Luminol” è un saliscendi che riporta direttamente agli Yes di “Close To The Edge”, fra Hammond e cambi di tempo, aperture corali e giochi di pieno e vuoto, esplosioni e ammiccamenti. Dodici minuti di intensità incredibile, per quanto (volutamente, e c'è da crederlo) in tutto e per tutto “retro'”. “Drive Home” è una ballata più “moderna”, ma lo spettro dei Genesis di “A Trick Of The Tail” non riesce a star lontano (qui ci si era già arrivati in “Postcard” dall'album precedente): la dolcezza e la spontaneità che guidano la melodia non sono mai state così marcate, e i maggiori difetti imputabili almeno a parte della produzione dei Porcupine Tree (la freddezza e la poca spontaneità) paiono essere del tutto superati.
“The Holy Drinker” si muove per altri 10 minuti nei territori dello Steve Hackett solista, guidato dagli assoli al flauto di un Theo Travis in forma smagliante, e “The Pin Drop” cerca e trova nuovamente l'effetto montagna-russa, rimarcando con la sua coralità l'incredibile affiatamento della band. Ma l'apice del lavoro tutto arriva nello strumentale “The Watchmaker”, che parte fra arpeggi di chitarra e raggiunge un finale da capogiro esplodendo nell'ennesimo unisono di voce, elettrica, ritmo e tastiere, passando nel mezzo per un assolo pianistico in tempo dispari e un altro affidato alla spiazzante e fenomenale chitarra di Govan. L'emozionante ed epico finale della title track, di sicuro il brano più evocativo e intimo del disco, riesce a condurre nel migliore dei modi all'uscita di questa raccolta di fiabe, nata nella semplicità e nell'umiltà, due elementi fino a prima estranei all'universo personale di Wilson.
Raggiungere lo status di maturità è un processo lungo e pieno di ostacoli e miraggi, che non può certo prescindere dall'analisi e correzione dei propri errori. E sembra proprio questo l'elemento che rende “The Raven That Refused To Sing (And Other Stories)” con tutta probabilità il disco più completo, coeso, riuscito della carriera di Steven Wilson, il disco della maturità intesa non come rassegnazione e accettazione dei propri limiti, ma come avvicinamento alla forma più probabile di perfezione personale. Correndo il rischio, senza dubbio alcuno, di poter incappare in uno dei miraggi di cui sopra, di sicuro il più bello e memorabile. Sognare non è vietato, come non lo era lasciarsi guidare dai trip: Wilson pare volercelo dire, e questa volta un plauso lo merita per la capacità di persuadere.
Di sicuro un capolavoro, probabilmente Il capolavoro. Di questo passo, inutile negare che la mancanza affettiva dei Porcupine Tree può passare tranquillamente in secondo piano. Con un sentito “lunga vita” al progressive e a chi, pur negandolo, continua anche a quarant'anni dalla sua epopea a tenerlo in vita.
05/04/2013