“Eh! Ma allora cosa ami, straordinario straniero?
- Amo le nuvole… le nuvole che vanno… laggiù… laggiù… le meravigliose nuvole!”
La squisitezza dell’album d’esordio “Taking My Youth” degli italiani À L'Aube Fluorescente non è da ricercarsi in un alacre manierismo, né tantomeno in un esanime tecnicismo fuori dal comune e neanche in un’esecrabile ricerca dell’originalità a tutti i costi che spesso finisce solo per evidenziare, laddove avrebbe voluto celare, una notevole pochezza di forma e sostanza.
“Taking My Youth”, il cui titolo e l’uso del tempo progressivo già rilevano il carattere formativo e proteso verso il futuro dell’opera, trasuda invece puro amore per la musica e soprattutto un’onestà intellettuale che quasi urla contro l’arrivismo e l’indigenza di essere “come tu mi vuoi”, una delle più grandi malattie dell’emergente panorama alt-rock tricolore. Una sorta di essenziale ricerca della bellezza che si pone agli estremi di ogni obbligo di stupire e che, idealmente, suggerisce le contrapposizioni che si vengono a creare nell’accostamento tra pittura classica e moderna, paragone questo apparentemente forzato, ma che in realtà vuole sottolineare un legame con l’arte in questione che la musica della band abruzzese ha spesso ostentato.
Proprio come una tela dalla modesta cornice posta al centro di una stanza vuota, “Taking My Youth” va osservato da media distanza, cercando di coglierne l’essenza senza dimenticare il tempo necessario a scovare ogni dettaglio, ogni particolare che farà la differenza rispetto alla mediocrità. Certamente non è un dettaglio la voce di Jacopo Santilli, sempre più lontana dagli accostamenti celebri degli esordi e capace di palesare una timbrica d’impatto e soprattutto uno stile, tecnica e pronuncia anglosassone, da professionista. A questo si aggiungono testi autobiografici, gonfi di rimandi al mondo dell’arte, ma anche carichi d’immagini metaforiche non sempre di facile interpretazione.
Sotto l’aspetto strumentale, “Taking My Youth” è opera non troppo complessa, con una sezione ritmica rigorosa, chitarre mai troppo sovraccaricate di effetti o distorsioni e, come detto, tanta attenzione alla parte vocale, non solo lirica ma anche melodica. Nei primi secondi dell’opening track, “Wiser”, che vede la partecipazione di Giuseppe Cillo (La Dodicesima Notte) alla chitarra, si potrà denudare una delle tante chiavi di lettura dell’album, una sorta di ethereal-wave stile Cocteau Twins dal sapore più crudo e meno sognante che ritroveremo ancor più nella successiva “Crave (No Other Gods)”.
Sono più di stampo pop-rock, quasi glam, brani come “Lover/Liar”, la traccia che dà il titolo al disco e “The King Of Air Castles”, ma il pezzo che più di tutti colpirà l’ascoltatore già al primo play è di certo “Lizard”, probabile prossimo singolo, da pelle d’oca nella sua immediatezza e semplicità. Un piccolo gioiello alt-rock, uno dei tanti singoli presenti in tracklist, che farà felici i fan della scena alternativa anni 90 (pensate a Smashing Pumpkins e Placebo con le dovute distanze non solo qualitative), tutto impreziosito dalla compartecipazione alla voce di Dayan El Zweig (Delibra).
Parlando di singoli dall’immediato appeal, non sono da sottovalutare la bellissima “Gloom”, ma anche “Brand New Stupid Word”, che tuttavia nel concreto è il pezzo meno convincente. A chiudere l’album troviamo “Venetian Green Room”, il passo più intimo e sommesso, quasi un invito a smascherare quella che immagino possa essere la possibile evoluzione art/dream/chamber-pop della band.
“Taking My Youth” è opera di valore assoluto che probabilmente farà grande fatica a imporsi in un mercato che sembra totalmente incapace di andare oltre taluni cliché, ma che inevitabilmente sarà apprezzata da chi sa cogliere nell’alt-rock quella bellezza candida citata a inizio articolo.
Certo, non tutto è perfetto; gli eccessivi rimandi possono soffocare l’originalità e nel carattere si denota ancora qualche acerbità stilistica. La parte strumentale potrebbe provare a competere con più enfasi e personalità con la voce, non limitandosi a sostenerne l’eccellenza e, nei brani più onirici, la registrazione della voce stessa avrebbe dovuto evidenziare la profondità piuttosto che la comunque lieve ruvidezza.
“Taking My Youth” resta un disco non comune senza essere anticonformista, una scommessa vinta, e pone le basi per una nuova sfida da superare già dal prossimo lavoro. Un disco che colpisce al cuore prima di affondare le unghie nella testa e che ci riporta in un mondo da sogno, fatto di nuvole e note, senza mai impoverirsi della sua potenza.
05/06/2015