Mezzanotte e un incrocio di campagna malamente asfaltato: è già inverno nello stomaco del Mississippi, vento traditore tra gli immensi campi di cotone a est e l’eco del Grande Fiume che sussurra poco lontano, dall’altra parte. Siamo a metà degli anni Trenta ma non c’è chiarezza sul luogo: Rosedale, forse Clarksdale. Di “sicuro” o meglio, di leggendario, c’è un giuramento: l’anima in cambio di un suono. Quel suono. Mercurio Selvaggio. La custodia della chitarra è vuota, abbandonata sul ciglio della strada, le scarpe ormai consunte mentre lo vedi andar via, devastato dal vagare senza meta.
Ma l’attesa è finita e Robert Johnson ha stretto il suo patto col diavolo. Prima era solo un pivello, un principiante vagabondo. Ora è il più grande chitarrista blues del Delta, le porte di ogni locanda si spalancano come le bocche quando quel ragazzo siede e l’incantesimo ha inizio. Il pubblico vive la magia senza parlare, applaude forte. A qualcuno sembra di scorgere un’aura intorno a quella musica, un soffio maledetto, pericoloso e al tempo stesso tremendamente attraente. Poi giù il sipario.
Passano gli anni, i decenni, eppure qualcosa di quell’aura resta come impigliata nell’aria.
Infine si libera e attraversa l’oceano, si tuffa in un altro mare per poi riemergere in un luogo e in un contesto che più diversi non si potrebbe.
Siamo infatti a Roma. E’ di nuovo inverno ma il tempo è quello di oggi. La location, un vecchio teatro nel centro storico. Il concerto rock è appena iniziato e un fascio di luce gialla illumina la band. Il cantante ha i baffi e gli occhi chiusi, le braccia arringano la folla come quelle di un predicatore in una chiesa battista del Sud. Dietro e al suo fianco, un tastierista geniale e sorridente, una sezione ritmica che non sbaglia un colpo. Il pubblico trattiene a stento l’entusiasmo. Sono passati decenni da quella mezzanotte e da quel fatidico incrocio, la musica stessa ha cambiato pelle e colore già infinite volte, eppure qualcosa di quell’antica aura, un granello di quell’incantesimo così diabolico e sexy, è qui stasera. C’è il blues e il gospel, c’è l’urlo di Little Richard e quello di James Brown, uno slancio e un'attitudine che credevamo sepolti per sempre, perché la nostra è stata terra di rock'n'roll solo per un battito di ciglia e una manciata di stagioni.
Invece i Joe Victor, quartetto romano al disco d’esordio, ci portano altrove. Fermano il tempo e cantano in inglese in maniera credibile tanto che, anche se non si conosce bene la lingua, ci si lascia andare al suono. Mercurio Selvaggio. Ascoltare i loro pezzi più melodici e movimentati (“Bamboozled Heart”, “Made 2 B. the 1”, “School Bus” o “Cold”) significa ripartire alla scoperta dell’America, salire a bordo di un tour bus in stile “Almost Famous” e fare il pieno di buone vibrazioni e album dei Creedence Clearwater Revival.
Già, perché i riferimenti sonori della band affondano nella sorgente dei grandi del rock anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, influenze presenti eppure perfettamente assimilate verso un’identità già ben definita e riconoscibile malgrado il poco tempo trascorso dalla fondazione del gruppo.
E il gioco non finisce con l’espressione scatenata del rock più viscerale. C’è spazio infatti, e parecchio, anche per sfumature più soffuse e delicate, quasi psichedeliche. Sono quelle di “Days”, di “All The Ladies” e “Slip Away”, ballate acustiche in bilico tra Caravan, Beatles e Bowie (periodo "The Man Who Sold The World"), per non dire di “Tomi” e del suo soffice equilibrio à-la Simon & Garfunkel. Infine un brano, “Love Me”, il più cliccato e popolare finora, che ci traghetta tra Bahamas e Giamaica attraverso echi di reggae e una vocalità graffiante che con piacere ci riporta alla memoria l’indimenticabile (e purtroppo dimenticato) Exuma, stregone caraibico trapiantato a New York City, rabdomante del crossover tra calypso, folk e suggestioni seventies.
Sembra non mancare nulla a questi ragazzi: melodia, urgenza espressiva, personalità, una carica live davvero fuori dal comune, canzoni orecchiabili e memorizzabili già al secondo ascolto, la grinta e lo slancio di chi punta in alto, fuori dall’asfittico, auto-referenziale scenario "indie". Di chi è qui per la musica senza secondi fini: non per gli autografi o per il facile riscontro televisivo.
Ci auguriamo quindi che la bontà della proposta, distante anni luce dal becero nazional-popolare perennemente in voga, possa portar fortuna ai Joe Victor. “Blue Call Pink Riot” è una gran bella sorpresa, tra gli album migliori dell’anno che volge al termine. Che quell’antica aura e quel vento possano portarli lontano.
18/12/2015