Parlando degli Autechre, ossia della celebrata creatura electro dei mancuniani Rob Brown e Sean Booth, si potrebbe tranquillamente tirare in ballo e parafrasare una celebre massima del pittore russo Vasilij Kandinskij: il suono è il tasto, l'orecchio è il martelletto che lo colpisce, l'anima lo strumento dalle mille corde. Ora, prendiamo per buona questa osservazione e rivolgiamola al dodicesimo studio album del duo: che tipo di suono è il suono che si ascolta nei quasi 250 minuti racchiusi nei cinque volumi di "Elseq"? Tanto per cominciare è un suono che, nonostante le apparenze, riassume tutti i pregi (molti...) e i difetti (pochi...) del gruppo che ci regalò capolavori di techno-ambient destrutturata e minimale, eppure mai algida, quali "Incunabula" (del 1993) e "Amber" (di un paio di anni dopo).
Ci sono gli esperimenti proto-industrial tipo "feed1" (di cui si è avuto un assaggio il 13 maggio di quest'anno su Bbc Radio 6) e "c16 deep tread" (mandata in onda due giorni dopo in Alaska, dai tipi di radio KSUA) - entrambi contenuti in "Elseq 1" - ai quali si alternano gli strani patchwork techno-dub-futuristici di "Elseq 3" (date un ascolto alle mastodontiche, 22 minuti la prima, quasi 25 la seconda, "eastre" e "mesh cinereaL").
Ma l'opus magnus autechriano offre anche spazio al dancefloor e all'intelligent techno, come dimostrano i pezzi contenuti in "Elseq 4", e quando serve riesce persino a far rivivere i fasti electro-minimal-ambient che furono la cifra stilistica dei Nostri all'altezza dei primi due dischi.
Nel complesso, il quintuplo (che esce solo in download, come accadde nel 2008 a "Quaristice", nono album della band) mette in campo un'idea di musica astratta che oltrepassa Kandinskij e prova a "costruire" uno spazio pluridimensionale, partendo da dei beat apparentemente piatti, dentro al quale i suoni si incastrano ai suoni dando vita a un nuovo tipo di geometria sonora, ben distante da quella euclidea.
In fondo, il loro modus operandi, se proprio vogliamo tirare in ballo un altro campione dell'astrattismo (nonché dell'illusionismo) illuminato, ricorda quello dell'incisore nonché litografo olandese Maurits Cornelis Escher, che sui temi da noi dibattuti così si espresse: "Anche se per convenzione diciamo che una parete o un pezzo di carta sono piatti, rimane sorprendente il fatto che, su una tale superficie, riproduciamo delle illusioni spaziali come se questo fosse da sempre la cosa più normale del mondo. Non vi sembra assurdo, a volte, il fatto di disegnare un paio di linee e affermare: questa è una casa?". Eggià, il caro vecchio Escher ci ha preso in pieno: perché non sono poi molti i musicisti che hanno saputo trascendere i limiti dell'ascolto binaurale (ovvero a due orecchi, ossia a 360° sferici), oltre i confini della quarta e forse persino della quinta dimensione, meglio degli Autechre.
Un altro inghippo, nella "trappola astratta" in cui è invischiato (sebbene con risultati eccelsi) il duo, lo si potrebbe giustificare tirando in ballo la cosiddetta Teoria della pura visibilità (in tedesco: Die Reine Sichtbarkeit), che fu elaborata - dal teorico e storico dell'arte Konrad Fiedler e da due artisti, tali von Hildebrand e von Marées - nell'ultimo quarto del 19° secolo, secondo la quale "l'arte figurativa è indipendente da ogni dato naturale preesistente in quanto produttrice di forme che hanno in sé stesse la loro ragion d'essere e che rispetto al mondo esterno hanno piuttosto una funzione conoscitiva che imitativa". Tale teoria studia la condizione in cui si trova un oggetto che può essere percepito dall'occhio, più di preciso analizza la possibilità di percepire e distinguere, più o meno chiaramente, gli oggetti, sia nell'ambiente circostante sia attraverso un mezzo trasparente o diafano. Ciò detto, assumiamo che la produzione di un disco, ossia il grado di visibilità che un produttore dà a questo o a quel dettaglio sonoro all'interno di un album, sia il grado zero di una nuova Teoria della pura ascoltabilità. Ebbene, il sound degli Autechre vivrebbe all'interno di quello spazio fittizio - frutto da una parte dell'atto compositivo e dall'altra delle sessioni di registrazione, che fisserebbero ab eternum le forme sonore-sinfonie-canzoni-quel-che-è - come qualcosa che non ha nulla a che vedere con gli oggetti della realtà.
In fondo il kling-klang elettronico del nostro duo ha da sempre come unico referente "ontologico" se stesso, e pertanto nulla deve, in termini di imitazione-ispirazione-omaggio, agli spazi del mondo quotidiano, che sono gli spazi della nostra vita nonché della maggior parte dell'arte musicale (che da sempre canta o descrive la cosiddetta realtà, e che quasi mai ha saputo rinunciare ai propri intenti "descrittivi"; anche quando a un primo ascolto sembrerebbe il contrario: si prendano ad esempio "Le Sacre du printemps" di Igor Stravinskij o "Quatuor pour la fin du temps" di Olivier Messiaen).
Concludendo: titoli astratti, come quelli contenuti in questo quintuplo album (tipo: "TBM2" o "spTh") non sono i vezzi di un duo di architetti del suono che vuole menarsela, ma servono da fondamenta (ahinoi, astratte) attraverso le quali posizionare le strutture (sempre più astratte ma sempre più avvincenti, sebbene fatalmente non adatte a tutti i palati) dell'arte autechriana, che negli anni ha imparato a muoversi fra i suoni come all'interno di una specie di cosmico Big Bang, dove la materia prima è lì, a disposizione del primo demiurgo di passaggio che abbia la voglia per prendersela e farci il suo fottutissimo, nonché astrattissimo, universo (fatto interamente di suoni, ça va sans dire…). Chapeau!
01/06/2016