Infine, l'atto conclusivo della trilogia. La redenzione, la risalita graduale dalle tenebre, dalla depressione, dalle sconfitte personali: leccate le ferite, superate le fasi più ostiche del fallimento (in qualsiasi forma si manifesti), è il tempo di procedere oltre, di predisporsi al futuro con uno spirito più propositivo, non necessariamente ottimista, senz'altro però memore delle lezioni e delle batoste del passato. Chi vede nelle tre tappe discografiche principali del percorso solista di Dawn Richard una riflessione in musica delle esperienze di vita della formidabile artista di New Orleans non sarà poi molto lontano dalla realtà dei fatti; anche per questo motivo, nonostante i ripetuti annunci da parte della diretta interessata di una rapida pubblicazione di “Redemption” (ai tempi ancora definito “Redemptionheart”, in continuità lessicale con le prime due installazioni), ha senso che la sua uscita abbia richiesto ben più tempo di quanto preventivato. Sotto molti punti di vista, il 2016 è stato effettivamente l'anno del riscatto per Richard: con “Blackheart” a finire altissimo nelle classifiche di molte riviste specializzate, il suo peculiare approccio alla moda ad attrarre l'interesse di aziende del settore, e la sua etica lavorativa a mostrare una nuova via all'affermazione personale e artistica, anche con la mancanza finora del tanto chiacchierato terzo capitolo, il buzz attorno al suo nome è stato consistente. L'aver posticipato l'album, nei termini ora utilizzati, ha acquistato quindi un significato ben più profondo, parla anche della concezione che una come D∆WN ha nei confronti del proprio aspetto creativo.
Appare quasi superfluo affermare quanto una simile posposizione abbia giovato ai fini della realizzazione del lavoro. Forte di un concept emotivo che ne unisce i brani come le perle di una collana, nonché di una visione progettuale che riesce a dissipare la frammentarietà stilistica e la naïveté lirica dei vari pezzi distribuiti nel corso degli scorsi mesi (lo stesso “Infrared” non è immune da questo discorso), “Redemption” è un album pensato e strutturato in quanto tale, forse il lavoro di Richard che meglio ne incanala la forza creativa in un progetto compatto e unitario. Anche se privo dei picchi di “Blackheart”, il nuovo disco risente profondamente della sua influenza, ribadendo il gusto per strutture compositive di stampo progressive e una scrittura che si intervalla tra melodia e sua negazione. Eppure, molto è cambiato da allora. In primo luogo, quanto vi era ai tempi di r&b e dintorni a questo giro sembra essere stato messo totalmente da parte, confermando la sincera intenzione da parte della musicista di sfuggire a cliché e facili catalogazioni, per approfondire fino in fondo la veste elettronica di elezione. In seconda battuta, finalmente è l'occasione di riconsiderare il ricco patrimonio culturale di provenienza e valutarne la capacità di adattamento alla luce di wonky, trap, hd-abstract e quant'altro, in un incontro tra epoche e tradizioni che parla di tutto il fermento musicale di cui New Orleans è ancora protagonista. Cajun, jazz e funk-rock diventano quindi nuove frecce nell'arco della cantante, di cui fare uso nella più totale libertà, in giustapposizioni ardite e bilanciamenti inaspettati.
Lo sa bene Trombone Shorty, qui chiamato per dare un twist jazz alla coda di “LA”, unico brano in cui poter rintracciare richiami agli attuali linguaggi black contemporanei, per quanto ampiamente filtrati dai pesanti interventi electro-trap della produzione, e puntellati da un'interessante linea di Rhodes e basso, che ancor di più testimoniano il fitto dialogo stilistico voluto da Richard. Un discorso che interessa in maniera analoga “Hey Nikki”, in cui una chitarra sgranata e una batteria al rallentatore costruiscono una scarna intelaiatura funk-rock su cui D∆WN si muove come una diva soul d'altri tempi, simulando malinconia e nostalgia nella sua interpretazione più commovente di sempre. In effetti, anche in quei momenti in cui il ritmo e la voglia di ballare sono soverchianti rispetto al resto, è difficile non constatare quanto questa redenzione si manifesti come un'euforia controllata, dominata da una riflessività che non manca di lanciare stoccate al mondo circostante. I due coproduttori chiamati a raccolta per l'album (il già noto Noisecastle III, ma soprattutto Machinedrum, per il quale Richard aveva già prestato la voce in “Do It 4 U”) manovrano le linee guida dettate dall'artista riflettendone le consapevolezze acquisite, l'inquietudine e la gioia, donando ai brani una mutevolezza estetica e sonora che ripudia ogni forma di linearità, accantonando così ogni contatto più o meno lato con l'universo pop.
“Black Crimes”, col suo procedere spastico e le sincopi ritmiche a porsi al confine tra wonky e l'uk-bass di casa Fade To Mind, racconta con una prospettiva del tutto particolare l'aizzarsi della violenza da parte delle forze dell'ordine nei confronti della popolazione nera, centrando il momento più immediato e ficcante dell'intero album. “The Louvre”, posta al chiudersi del lavoro, è la straziante, e tutt'altro che naïf, presa di posizione sulla necessità di superare ogni distinzione di genere, razza, sessualità e religione, puntando dritta all'umanità che dovrebbe essere il cardine principale del mondo che verrà: fondamentale che a veicolare un simile messaggio sia una voce colta in tutta la sua purezza espressiva, accompagnata da un organo e qualche sparuto elemento percussivo. Tra sinuosità tropical, stacchetti di transizione e lucidità wonky-house di puro stampo Machinedrum, “Renegades” vibra in “Redemption” di un'intensità ritrovata, chiarendo la natura ribelle dell'ascesa di Richard in quella che a tutti gli effetti si profila come la “Blow” dell'ultimo disco, la stessa energia selvaggia e frenetica a dettare il passo. Laddove poi sembra quasi aggirarsi lo spettro della V V Brown più elettronica e sperimentale (la superba “Tyrants”, bassi possenti a sostegno di un'esplosiva linea electro), è un attimo perché la danza prenda forme totalmente diverse, e la curiosa risalita di D∆WN contempli indecifrabili incastri, in cui poter reinterpretare la Edm di inizio anni 10 alla luce della pc-music, della glitch e dell'attuale riscoperta trance, in un susseguirsi di colpi di scena e nuovi sipari ritmici (“Love Under Lights”).
Con nuovi mezzi rispetto all'armatura decantata ai tempi di “Goldenheart”, e un atteggiamento battagliero che si accompagna a concetti come percezione e sensibilità, la Dawn Richard del 2016 è una donna non soltanto cosciente delle proprie capacità e un'artista di spicco nel suo settore, ma una figura di riferimento nel dettare nuove vie a un'elettronica che sia allo stesso tempo consapevole, ricercata e incline al dancefloor. Ancora fieramente priva del supporto di una vera label (unica pecca di tale scelta, il doversi privare della consueta tiratura in cd), l'arte di D∆WN brilla più intensamente che mai: non poteva esserci conclusione più degna per una trilogia simile.
01/12/2016