Cosa ci fa un volto, una figura definita, sulla copertina di un album di Ichiko Aoba? Per un'artista così gelosa della sua estetica minimale, di un monocromatismo diventato un marchio di fabbrica, uno scarto simile, prescindendo da uscite estemporanee (lo splendido live-record “0%” di due anni fa), reca con sé i segni di una rivoluzione in atto, di un affronto alle convenzioni più o meno autoimposte che al contempo hanno costituito parte della fortuna, di critica e di pubblico, della straordinaria cantautrice giapponese, e del suo magico microcosmo a tinte pastello. Eppure l'ascolto, almeno di primo acchito, pare proprio non rispecchiare questa differenza rispetto al passato: anche se più aderente ai parametri grafici e di scaletta del precedente terzetto di dischi, un lavoro come “0”, con le sue sviate impro e le costruzioni progressive dei brani, ampliava di varie larghezze la palette espressiva della songstress, al punto da trasfigurarne quasi del tutto i connotati. In questo senso, gli undici bozzetti di “Mahoroboshiya” pongono totalmente in discussione l'approccio free-form, più destrutturato, del precedente lavoro, riprendendo il filo del discorso interrotto successivamente a “Utabiko”. Eppure, il vecchio dream-folk dei primi lavori è inesorabilmente cambiato.
Pur constatando come voce e chitarra siano gli artefici (pressoché; ci torniamo dopo) esclusivi anche di questo nuovo disco, e come la stessa Aoba si premuri ancora una volta di ricoprire i suoi brani di un'aura evanescente e immateriale, puntando a condensare il massimo numero di idee nel minor tempo possibile (anche qui, il collegamento col passato più remoto è inevitabile), la realtà parla di una nuova messa in discussione di questi parametri stilistici, di una scrittura che sente sempre più la pressione di rivolgersi altrove e schiudere tutto il suo potenziale inespresso. Se è vero che non mancano pezzi dall'impostazione più canonica, somiglianti in tutto e per tutto alle sfuggenti ninne-nanne di “Kamisori Otome” o di “Utabiko” (l'ovattata ambience di “Yume Shigure”, i fraseggi cullanti di un breve interludio quale “Omedetou No Uta”), tuttavia restano episodi isolati, in un quadro più ampio che passa per raffinate soluzioni bluesy (“Yusagi”), contempla spigliate ipotesi di indie-folk alla giapponese (“Taiyou San”, il pezzo più spigliato e a suo modo pop del suo repertorio), approfondisce la vena prog del precedente lavoro, contenendone le fughe strumentali e i cambi di passo in costruzioni più condensate e sostenute (l'ostinato melodico della title track, modulato con pattern di chitarra in continua trasformazione; “Umi Tengu” e la sua struttura bipartita, spezzata dall'intermezzo acustico).
Registrazione e produzione giocano poi per la prima volta un ruolo significativo nella carriera di Aoba. Non che elementi atmosferici e di contesto entrino per la prima volta nel vocabolario musicale della cantautrice, però le sovraincisioni vocali di “The End”, intro che involontariamente richiama alla memoria il taglio liturgico della “Preface” di FKA twigs, restano una novità assoluta nel suo carniere, a maggior ragione se si considera come un simile artificio scenografico non venga utilizzato, in “Kamisama No Takurami”, come semplice espediente onirico, ma come parte integrante del tessuto melodico del brano. Analogamente, la spazialità data dall'uso accorto di riverberi e piccoli contributi “concreti” fornisce maggiore tridimensionalità a una ricetta espressiva non sempre capace di rivelare ogni sua più intima sfumatura, superando così certe barriere che di loro limitavano non poco le possibilità.
È però in “Kounotori” che Aoba abbatte un'imposizione finora ritenuta insormontabile, quella del dualismo alla base della sua musica: con un sottile fischio di teiera a conferire calore domestico, il brano si sviluppa attraverso fugaci impressioni di solo pianoforte, un interludio a cavallo tra modern-classical e ambient pura il quale reca comunque forti i segnali della sua ideatrice, tra l'incedere spezzato delle note e l'assoluta leggerezza che detta il mood. Per quanto piccola, la rivoluzione insomma non si è tramutata in miraggio.
Cosa aspettarsi a questo punto da Ichiko Aoba? La strada neoclassica effettivamente sarebbe un'idea almeno sulla carta esaltante, che aprirebbe moltissime nuove porte alla musica della cantautrice. Difficile, però, ritenere che ci sia un abbandono, anche soltanto parziale, delle care sei corde di chitarra. Qualunque sia il percorso scelto, quel che è chiaro sin da ora è come, nonostante l'apparente staticità della proposta, la sua evoluzione a piccoli passi mostra quanto in realtà quella di Aoba sia materia viva e pulsante, a cui servirà un nonnulla per potersi rinnovare ancora una volta.
21/12/2016