Nei primi anni 60, John Coltrane sta scrivendo, o meglio riscrivendo, il jazz e la sua storia così come la conosciamo oggi. Nel 1961, in particolare, registra dal vivo allo storico Village Vanguard una delle sue session più importanti, che gli frutteranno almeno due album: “Live At Village Vanguard” (1962), appunto, e “Impressions” (1963). Il periodo è davvero cruciale. Non soltanto sta, Coltrane, oltrepassando la musica modale imparata col sodalizio - non a caso in quel tempo già in via di rottura - col compare e leader Miles Davis per le nuove lande del free-jazz e la libera improvvisazione collettiva, ma pure cementa il suo quartetto classico, con McCoy Tyner, Jimmy Garrison e Elvin Jones, con cui traghetterà verso “Crescent” (1964), e soprattutto verso “A Love Supreme” (1964).
In quella focosa esperienza live vedranno la luce capolavori come “India”, “Impressions”, il supersonico e chilometrico assolo di “Chasin’ The Trane”. In studio di registrazione, privato peraltro dell’originaria presenza di Eric Dolphy, il nuovo ensemble sta invece ancora sulla difensiva, spartito tra ballad, standard e umili composizioni originali. Tra questi primi tentativi, collezionati in “Coltrane” (1962) e “Ballads” (1963), e gli album leggendari che ogni buon appassionato di jazz conosce, si viene a sapere del tassello mancante dato da una session all’epoca accantonata, che dunque non sfocerà in alcun disco ufficiale e che la famiglia del sassofonista ha finalmente raccolto, più di cinquant’anni dopo, e selezionato per confezionare un finora sconosciuto lost album, “Both Directions At Once”.
La scelta del titolo fa da corretto emblema. In pieno momento di transizione, Coltrane mostra effettivamente di muoversi al contempo in entrambe le direzioni della sua vita artistica: rispetta la tradizione delle ballad, dell’hard-bop e del jazz modale, e contemporaneamente dà alcuni primi colpi alla sua ricerca. Al bebop tradizionale appartengono senz’altro i brevi bozzetti “Untitled Original 11383” e “Vilia”. La versione di studio di “Impressions” purtroppo non ha nulla del fuoco della registrazione dal vivo.
L’altro “Untitled Original” al “buona la prima”, il “11386”, è invece un buon motivo per possedere il disco, dal tema principale, uno dei suoi iconici (una piccola anticipazione di “Acknowledgement”), all’improvvisazione a tratti sfiatata, urticante, già colta in una “ascensione” in qualche modo ultraterrena.
Altro motivo semplice e memorabile sta in “One Up, One Down”, che però vale più per l’afflato ritmico, quello dei giorni migliori. Il brano più ampio, “Slow Blues” (undici minuti), si descrive bene nel titolo, un generico blues dimesso e lento (un cambio di tempo più rapido in coda), ma anche una forma libera di fraseggi complessi che tende a disfarsi dei codici armonici tout-court, e il suo tipico modus di allungare indefinitamente l’assolo.
Diversamente dalla colonna sonora di “Les Liaisons Dangereuses” (2017) di Thelonious Monk di cui già si sapeva, un gruppuscolo di brani sgorganti dal nulla in grado di deliziare neofiti e coltraniani navigati. Si passa una buona mezz’ora a riascoltare un sassofonista d’annata in allenamento, più che altro a testare i comprimari, e solo dopo si arriva alla visione. Conta soprattutto per il valore storico, ma gli assoli sono buoni, l’interplay eccellente, segni lampanti delle prodezze a venire. Sonny Rollins: “E’ come scoprire una stanza segreta nella Grande Piramide”. E un interesse tutto d’archeologi l’hanno, infatti, le take alternative che compongono il secondo facoltativo disco in allegato (versione deluxe): “Vilia” (quinta), altri tre di “Impressions” (prima, seconda e quarta), due di “Untitled Original 11386” (seconda, quinta) e un altro di “One Up, One Down” (sesta, Jones in visibilio).
10/07/2018