Leggendo il titolo, “Apart”, del nuovo lavoro di HVSBAND, al secolo Gianlorenzo De Sanctis, il primo dopo nove anni passati “in disparte”, si potrebbe pensare all’ennesimo album realizzato e confezionato in appartamento nel corso dell’estenuante “sessantena” da Covid-19. L’isolamento che il musicista bolognese (ex-Buzz Aldrin) si è imposto ha, invece, radici ben più risalenti nel tempo, collegate a un incidente di qualche anno fa nel quale riportò un trauma cranico e da cui ha faticato non poco a riprendersi. Più che la “rinascita” fisica, però, per Gianlorenzo ha avuto un peso notevole “la lotta per riconoscermi come HVSBAND davanti agli strumenti”. “La soluzione - racconta nella press-release - era vicina ma non la vedevo, ed è stata semplicemente questa: respirare più profondamente e lasciar andare le cose. Ora ci sorrido su ma il processo è stato più lungo e sofferente che riprendersi dall’incidente”.
Così, lasciate alle spalle – ma non troppo – le ferite e le sfuriate post-punk/noise degli Aldrin, De Sanctis ha messo in piedi uno studio di registrazione nel suo scantinato e ha aggiunto i synth ai ferri del mestiere, ammantando di una venatura pop decine di brani composti, sbriciolati e riplasmati. Di questi, otto sono finiti nella tracklist di “Apart”, pubblicato su nastro da More Letters Records. L’album, una “lettera intima, passivo-aggressiva, indirizzata a se stesso”, si apre con l’alt-pop, asimmetrico e notturno, di “All This Writing”, accattivante preludio à-la Beck (quello di “The Information”) di quanto ci aspetta nelle tracce successive: testi scarni e disincantati, contrapposti a un sound dinoccolato, catchy e, a suo modo, psichedelico.
Ancor più sbarazzine sono “The Mission”, coi suoi volteggi funk scanditi da un basso carico di groove, e “Dream Alone”, animata da un robusto intreccio retrowave, mentre il synth-pop smaccatamente 80 di “Your Guy” ci butta in pista con acconciature cotonate, eyeliner marcato e sneaker d’ordinanza.
Nell’altra parte del nastro, emerge la metà più irrequieta di “Apart”, in cui le liriche si fanno spigolose e le ritmiche irregolari e frenetiche. Succede coi sintetizzatori, caldi e avvolgenti, di “Lonely Blood”, sostenuti da un’insistente drum machine che rasenta la prepotenza nel delirio simil-marziale di “One Day Illusion”. L’attitudine si consolida nelle algide strutture digitali di “The Last One of The First One”, pervase da un canto robotico che scandisce versi nefasti: “We don’t rest here/ We can’t make it/ We don’t have time”. A chiudere il sofferto ritorno sulle scene di HVSBAND come one-man-band, è la seducente linea di basso di “No One’s Shade”, rincorsa da un controtempo che ne ravviva la raffinata architettura electro-pop.
20/05/2020