Bret Kaser, Connor Kleitz, Danny Eberle e Ilan Natter formano a inizi 2019 i Lip Critic in una formazione che contempla un vocalist, due batterie e un producer elettronico. Quella del primo singolo “Entry Level Stud” (2019) è una specie di danza (post)moderna dominata dalle sincopi furiose delle batterie e dalla storia truce e nonsense del cantante, mentre intorno impazzano versicoli e gemiti languidi presi da un r’n’b commerciale. Il primo Ep “Kill Lip Critic” (2019) aggiunge il claudicante, rarefatto e tremebondo resoconto di dolore di “Been Born”, il più vicino al “Filth” degli Swans, ma con una differenza madornale: la logorrea delirante in luogo dei proclami lapidari. Anche la filastrocca pseudo-reggaeton “Piece By Piece” si fonda sul duello efferato tra la sceneggiata interminabile al fulmicotone del cantante e la cortina dei suoni vomitati dai nastri. Infine in “Steel Toe” l’elettroacustica a mitraglia vince inglobando qualsiasi cosa, tanto la voce quanto i ritmi febbricitanti.
Il primo album “II” dura poco più di ventidue minuti, ma la maniacalità s’intensifica a livelli quasi inesplicabili. Il pandemonio di monologo di “Why Not?” si dimena in uno spesso vischio cacofonico fatto di batterie funk-metal sparate a mille e campioni caotici. “Like A Lemon!” assomiglia a quello che potrebbe essere un ultrarocambolesco remix dei Primus. “How Could You Do This To Me/Why Would You Do This To Me?” è un numero ancor più vertiginoso e ancor più istrionico, in cui le batterie pestano un tempo metalcore e il cantante tartaglia e svaria. “Blueman” frena appena l’impeto per cercare di intellettualizzarsi - un ritmo caraibico post-Can e una recitazione post-Lydia Lunch - ma di nuovo dimenandosi in una pasta viscida di suoni concreti.
Sempre coerente ma esteticamente all’estremo opposto è “6 Foot Tongue (When I’m With You)”, in cui i ritmi a saetta delle batterie tacciono e l’assetto si approssima perciò a un duetto tra voce e campionatore, ma la velocità rimane supersonica e la foga, qui ancor più esplicitamente breakcore rispetto al resto, rimane barbara.
La minisaga data dai due “Dreamland” si fonda su una parodia distruttiva della vaporwave e sulla sua ricostruzione fondata su quelle macerie, un balletto tuonante lanciato (ovviamente) a velocità folle. Ma la dose più letale sta nel pezzo eponimo, l’ultima sublimazione di rumori acuminati, filastrocche strepitate pazzamente, ritmi elettroconcreti supersincopati. In confronto, il piccolo calderone elettronico di “Monkey’s Paw Crystal Ball” suona quasi ambient e hip-hop in senso tradizionale.
Avvezzo al caos e alla spavalderia, oltre a una tonitruante imprecisione esecutiva che cementa il loro anti-magistero: quello del quartetto newyorkese è un crossover che mira, pur distrattamente e con sufficienza, a ridefinire new wave e no wave, una ricetta post-post-industriale tesa a riscoprire una nuova umanità cibernetica, ma istericamente danzante e straparlante, ormai sideralmente distante dalla de-umanizzazione operata tra i decenni 70 e 80, ma della quale tiene comunque conto in termini di potenza nichilista “No”. Tutto malamente suonato di getto eppure, allo stesso tempo, tutto ben calcolato per ottenere la massima furia dirompente. Poche collaborazioni: in “Monkey’s Paw Crystal Ball” lasciano spazio all’oscuro rapper e producer Habib “ID.Sus” Fall. Kristian Pitaccio innerva invece più discretamente “How Could You Do This To Me/Why Would You Do This To Me?” (anche singolo). Due remix in bonus. Seguito qualche mese dopo dal minuto e mezzo della spuria “Flat Screen” (2020).
22/12/2020