Non è che si fa tardi e finisce la luce della stella
e rimangono non finite frasi già scritte per metà?
Nel mezzo del cammino della sua vita, Marjan Farsad si ritrovò a dover fronteggiare l’incubo dell’aspra e inaspettata lotta contro il cancro. La paura, il pensiero di poter venire a mancare prima di riuscire a terminare la sua seconda raccolta di canzoni devono aver infestato la mente della cantautrice e animatrice iraniana. Lo spettro della morte appare così improvvisamente tra i versi delle poesie d’amore che la donna aveva composto negli anni che separano “White Tree” dal precedente “Blue Flowers”. La conclusione della sessione di registrazione poco prima dell’operazione chirurgica fu probabilmente un sollievo per l’animo inquieto di Marjan e le ha permesso di concentrarsi sul suo percorso di guarigione, che, fortunatamente, si è svolto senza complicazioni.
Delicati bozzetti naturalistici, turbini di petali variopinti e giravolte floreali, visi illuminati dal soffice raggiare lunare popolano e vivificano il dolce canto elegiaco delle nuove confessioni amorose di Marjan, ora posate su instabili e vaporose illusioni, ora germogliate su più solide certezze. Ma questo apparente trionfo del regno di Venere nelle sue diverse sfumature emotive è una creazione artificiale e letteraria, adombrata e intristita dai fantasmi autobiografici. Il tema del doloroso esilio volontario a cui è costretta l’artista, nata a Teheran e ora stabilitasi a New York, si scinde nella nostalgia della propria terra natia e nella ricerca costante di una nuova casa dove porre radici. Il moltiplicarsi di immagini in movimento, dal soffione di “Derahkte Sepid” all’imbarcazione che solca un fiume piuttosto calmo in “Emrooz O Farda”, si alternano a repentine epifanie memoriali di una vita precedentemente vissuta e ora necessariamente abbandonata.
Gli arrangiamenti raffinati e stratificati assecondano l’umore malinconico delle liriche e si rifanno alla chanson europea e al cantautorato di tradizione prettamente occidentale. “Parandeha” pare una ninnananna perduta nelle pagine dei diari di Everett e ritrovata da Hope Sandoval; “Abrisham” amoreggia con il repertorio di Françoise Hardy; “Sokoote Barfi” richiama la musica da camera con un intenso soliloquio notturno per pianoforte; chitarra elettrica e tromba colorano invece concitatamente la traccia conclusiva “Derahkte Sepid”.
In tutte le otto canzoni, però, la vera protagonista è la voce di Marjan, gentile e lieve, potente anche quando le parole sono quasi sussurrate. Grazie al suo canto e alla musicalità delle liriche, specialmente quelle in farsi, sembra prodursi in chi ascolta una sensazione di profonda e poetica meraviglia. “White Tree” è, infatti, un disco intriso di poesia, di una poesia che si presenta avvolta in sfarzose vesti occidentali, ma che nelle sue più intime immagini e figure simboliche è debitrice alla millenaria tradizione persiana, a cui non ha paura di riallacciarsi. Forse perché, nonostante sia stata composta in esilio, vive della speranza di riuscire a farsi udire anche in Iran, nella sua lontana terra di origine, portata dallo stesso vento che sospinge quel soffione a cui sono rivolte le ultime parole, la preghiera finale, di questo magico ritorno discografico.
O Soffione, se vedi due occhi celestiali,
porgi il mio saluto a quel mio bell’amico…
porgiglielo!, porgiglielo!
25/01/2021