Per Brian Borcherdt il moniker Dusted è sempre stato una sorta di camera di decompressione dal suo progetto principale, ossia gli scatenati Holy Fuck. Un luogo dove dimenticare per un momento i groove di tastiera e le ossessioni elettroniche della band di cui è frontman e riscoprire se stesso, cantare dei suoi pensieri più intimi. Ora accompagnato quasi soltanto della chitarra (in “Total Dust” del 2012) o con un approccio più da band (in “Blackout Summer” del 2018).
Questo terzo appuntamento con la sigla, intitolato semplicemente “III”, è certamente più vicino al disco del 2012, rivendicando però un approccio ancora più viscerale e sghembo alla composizione, con molti dei brani a risuonare quasi come delle first take. Come nel caso della scheletrica ed evocativa “Cedar Tree” o della commossa “Little More Time”, una dolcissima elegia per chitarra e voce dove la batteria si fa viva soltanto a metà strada e si sente la mano scorrere lungo le corde di ferro.
Resa magica dalla voce dolente e alle sue sovraincisioni, “They Don’t Know You” suona come se Bon Iver non si fosse mai scostato dall’intimità acustica del primo disco. Del resto, tutto l'album è segnato dal trasferimento di Borcherdt da Toronto alla Nova Scotia, con la ruralità placida dei nuovi scenari insulari a marchiare delicatamente le canzoni.
L’unico brano a cedere a qualche complicazione compositiva, che però non inficia, anzi esalta, il dramma familiare del testo, è “Baseball”, aromatizzata dal pianoforte elettrico e innaffiata di tromba come a voler ricordare gli American Football.
Ancora una volta Brian “impolverato” Borcherdt non ci offre nulla di speciale o peculiare, bensì la possibilità di sbirciare dentro al cuore che si cela dietro alcune delle più pirotecniche danze indietroniche del nuovo millennio. Mica poco.
23/12/2021