Con i riflettori puntati addosso è sempre tutto più difficile, ma ascoltando questo nuovo "My Soft Machine" viene da pensare che Arlo abbia affrontato la prova del secondo disco con il piede giusto. Se da una parte troviamo nuove soluzioni sonore e un sound in generale più patinato, che ci mostra il chiaro intento di ambire ai piani alti della classifica di vendite del Regno Unito (basti ascoltare il ritornello a presa rapidissima di "Blades", nonché il suo intermezzo hip-hop), dall'altra possiamo osservare quanto la genuinità e la spontaneità delle liriche sia rimasta intatta, così come il desiderio della Parks di dare voce alla sua generazione.
Il primo pezzo forte del disco è sicuramente "Impurities", un dolcissimo canto d'amore, un inno all'accettazione dei piccoli difetti dell'altro, cantato in un giardino giapponese di docili synth e drum machine. Utilizza più o meno gli stessi ingredienti, con un po' di spinta in più da parte della ritmica, anche l'altro singolo "Weightless", che a disco non ancora uscito ha già macinato oltre 5 milioni di ascoltatori su Spotify.
Un altro grande punto a favore di "My Soft Machine" è certamente la sua varietà stilistica. Per una "Devotion" che chiama all'azione un discreto arsenale di chitarre alternative rock anni 90, troviamo un duetto con Phoebe Bridgers ("Pegasus") giocato in territori trip-hop, una "Purple Phase" ipnotica e sospesa grazie a un leggerissimo giro di chitarra ripetuto all'infinito e i fiochi ululati shoegaze di "Dog Rose".
L'abuso di sostanze stupefacenti da parte degli amici, come lei nel mezzo dei vent'anni, e la crisi esistenziale che ne deriva, il primo amore che ti straccia le viscere e l'autosabotaggio tipico dello stress da disturbo post-traumatico sono solo alcuni dei temi affrontati da "My Soft Machine", che però li racconta attraverso canzoni lievi e zuccherose. Arlo Parks sembra sussurrarci all'orecchio, in un Lp sicuramente meno fulminante del suo predecessore, che la sua potrebbe essere davvero una grande carriera.
(25/05/2023)