Testamento olografo di un’artista scomparsa troppo presto, lasciando uno strato di incredulità che ancora oggi, a distanza di mesi dall’evento luttuoso, non accenna minimamente a diradarsi. Il quarto album di Jaimie Branch, inciso nell’estate del 2022 con il supporto del fedele quartetto Fly Or Die e pubblicato a un anno esatto dalla morte, è stato completato tenendo conto dei suoi desideri, ricavati dalle impressioni confidate ad amici e collaboratori durante le session di registrazione. “Fly Or Die Fly Or Die Fly Or Die ((world war))” rispecchia pertanto in maniera fedele quello che la sua autrice aveva in testa, comprese le idee per artwork, packaging e ordine della scaletta. E ad ascoltarlo oggi, col senno di poi, non vi troviamo assolutamente nulla che potesse far presagire l’azione fatale, un’overdose accidentale fra le pareti domestiche, il 22 agosto del 2022, a 39 anni.
Al contrario, “world war” è un disco ricco di momenti gioiosi, pieno di vita, come tutte le sue opere precedenti, un progetto meno “against” rispetto ai predecessori, senza quei proclami forti che raccontavano di un’America alla deriva, come fu nel caso dell’invettiva anti-Trump “Prayer For Amerikkka”. Il taglio politico resta, ma questa volta va catturato più sottotraccia, ed emerge grazie all’utilizzo delle parole, il vero valore aggiunto nel lavoro della Branch rispetto a molti colleghi jazzisti.
Accanto all’impegno militante, Jaimie mostra una certa “ricerca della fruibilità”, distinguendosi così dai tratti meno accessibili, ad esempio, di una Moor Mother. E lo fa per mezzo di una scrittura illuminata, in grado di utilizzare la musica jazz con un atteggiamento “punk”, contaminandola con ritmi latin, funk, rock, hip-hop, afrobeat.
Basti ascoltare una delle tracce centrali di “world war”, la trascinante “Take Over The World”, per comprendere come nessuno al mondo oggi fosse in grado di suonare il jazz con la sua stessa visione, con il suo medesimo atteggiamento. Accanto a queste sfuriate “violente”, dimostra di saper trattare il blues con dolcezza, rispetto e personalità, come avviene in “The Mountain”, rilettura asciutta e minimalista di “Comin’ Down” dei Meat Puppets, condivisa in solitudine con il contrabbasso di Jason Ajemian.
“Borealis Dancing” e “Bolinko Bass” sono invece inestimabili pezzi di bravura posti su ritmiche afrocentriche, e l’impronta “tribale” diviene ancor più forte in “Burning Grey”, arricchita dall’avvincente prestazione vocale di una trombettista sempre più credibile anche nel ruolo di cantante.
Nello spazio di una carriera troppo breve, fra protest songs e folli improvvisazioni free form, Jaimie Branch ha avuto la forza di farci immaginare un mondo “diverso”, in continua evoluzione, un talento prodigioso che ha conferito contributi sostanziali per l’eccellente stato di salute della scena jazz contemporanea, più o meno avanguardistica, aiutandola a sdoganarsi presso un pubblico “altro”. Impossibile evitare di pensare a “world war” come al disco di area jazz più importante e significativo del 2023, e non certo come posticcio riconoscimento postumo, bensì come reale attribuzione di eccellenza per quell’abbraccio multietnico e multi-stilistico indirizzato all’abbattimento di qualsiasi muro divisorio che Jaimie Branch ha saputo concepire e materializzare.
15/12/2023