Jaimie Branch, classe 1983, è stata una musicista statunitense di area jazz fra le più talentuose e apprezzate del nuovo millennio. La sua opera ha contribuito a trasformare il free jazz in un formato d’improvvisazione moderno, grazie all'innesto di contaminazioni hip-hop-latin-punk-rock, risultato di ascolti trasversali e di una moltitudine di collaborazioni, perfezionate negli anni fra Brooklyn, Chicago e Baltimora.
Ha scelto la tromba come strumento prediletto ma, dopo l'esordio solista "Fly Or Die", pubblicato nel 2017 su International Anthem, la chiave di volta nel percorso della Branch, la scelta che le ha consentito di guadagnare ulteriore autorevolezza, è stata quella di aggiungere alle proprie composizioni i testi, declamandoli personalmente, rendendo in tal modo il proprio messaggio ancor più diretto ed efficace, conferendo una forza che altri colleghi non possono avere.
Per mezzo delle liriche il suo lavoro ha assunto un forte taglio politico, apertamente “contro”: in questo contesto, una traccia come “Prayer For Amerikkka”, contenuta nel suo secondo lavoro "Fly Or Die II: Bird Dogs Of Paradise" (2019), acquisisce inevitabilmente la centralità assoluta del progetto: un’invettiva anti-Trump costruita su una solidissima base blues, pronta a evolversi in sfrenata danza mariachi, richiamando allo stesso tempo sia la tradizione dei canti nei campi di lavoro d’epoca schiavista, sia l’attualità dei problemi ai confini col Messico.
Ma dentro un lavoro come “Fly Or Die II” non emergono mai muri divisori, bensì un grande abbraccio multietnico e multistilistico: dal sound tropicalista di “Simple Silver Surfer” ai richiami ancestrali presenti nelle percussive evoluzioni afro di “Bird Of Paradise”, perfetto preludio per la coloratissima esplosione dall’incedere latin di “Nuevo roquero esteréo”. Verso il finale si incontrano i deliri zappiani di “Twenty-Threee n Me, Jupiter Redux”, che sfociano in una folle improvvisazione free form, e la suadente ballad conclusiva “Love Song”, forte di un’impennata che rinvigorisce una composizione di grandissima classe.
Grazie ai due "Fly Or Die" Jaimie diviene una delle più acclamate rivelazioni di un decennio cruciale nella rivalutazione complessiva della musica jazz – più o meno contaminata, più o meno avanguardista – e nel suo definitivo sdoganamento presso le generazioni più giovani e presso i circuiti che abitualmente ospitano la scena indie. Kamasi Washington e Shabaka Hutchings rappresentano soltanto le punte dell’iceberg di una scena mai così vitale da anni.
Nel 2021 Jaimie Branch chiude il cerchio su quanto fino a quel momento realizzato a proprio nome diffondendo "Fly Or Die Live", la registrazione integrale di uno show tenuto al Moods di Zurigo, in Svizzera, il 23 gennaio del 2020, appena prima dell'esplosione della pandemia.
Fra le tante collaborazioni concretizzate negli anni, va citato almeno il progetto Anteloper, condiviso con Jason Nazary, che ha fruttato tre dischi, fra i quali il terzo, l'ottimo "Pink Dolphins", diffuso poche settimane prima della sua prematura scomparsa, avvenuta improvvisamente il 22 agosto del 2022, a soli 39 anni, a causa di un'overdose accidentale. Come testamento, Jaimie ci lascia una manciata di moderne "protest song" che, rafforzate da un talento prodigioso, hanno contrassegnato la nuova stagione dell'oro della musica jazz internazionale.
A un anno esatto dalla sua scomparsa, "Fly Or Die Fly Or Die Fly Or Die ((world war))" rappresenta il suo lascito finale. Inciso nell’estate del 2022 con il supporto del fedele quartetto Fly Or Die, è stato completato tenendo conto dei desideri di Jaimie, ricavati dalle impressioni confidate ad amici e collaboratori durante le session di registrazione. “world war” è un disco ricco di momenti gioiosi, pieno di vita, come tutte le sue opere precedenti, un progetto meno “against”: il taglio politico resta, ma questa volta va catturato più sottotraccia. Accanto all’impegno militante, la Branch questa volta mostra una certa “ricerca della fruibilità”, distinguendosi così dai tratti meno accessibili, ad esempio, di una Moor Mother. E lo fa per mezzo di una scrittura illuminata, in grado di utilizzare la musica jazz con un atteggiamento “punk”, contaminandola con ritmi latin, funk, rock, hip-hop, afrobeat. Basti ascoltare una delle tracce centrali di “world war”, la trascinante “Take Over The World”, per comprendere come nessuno al mondo negli anni Venti del nuovo millennio fosse in grado di suonare il jazz con la sua stessa visione, con il suo medesimo atteggiamento. Accanto a queste sfuriate “violente”, dimostra di saper trattare il blues con dolcezza, rispetto e personalità, come avviene in “The Mountain”, rilettura asciutta e minimalista di “Comin’ Down” dei Meat Puppets, condivisa in solitudine con il contrabbasso di Jason Ajemian. “Borealis Dancing” e “Bolinko Bass” sono invece inestimabili pezzi di bravura posti su ritmiche afrocentriche, e l’impronta “tribale” diviene ancor più forte in “Burning Grey”, arricchita dall’avvincente prestazione vocale di una trombettista sempre più credibile anche nel ruolo di cantante.
Nello spazio di una carriera troppo breve, fra protest songs e folli improvvisazioni free form, Jaimie Branch ha avuto la forza di farci immaginare un mondo “diverso”, in continua evoluzione, un talento prodigioso che ha conferito contributi sostanziali per l’eccellente stato di salute della scena jazz contemporanea, più o meno avanguardistica, aiutandola a sdoganarsi presso un pubblico “altro”. Impossibile evitare di pensare a “world war” come al disco di area jazz più importante e significativo del 2023, e non certo come posticcio riconoscimento postumo, bensì come reale attribuzione di eccellenza per quell’abbraccio multietnico e multi stilistico indirizzato all’abbattimento di qualsiasi muro divisorio che Jaimie Branch ha saputo concepire e materializzare.
(Claudio Lancia)