Mai domi né inclini al compromesso, i Necks per il diciannovesimo album ufficiale della propria carriera si riaffidano all’arte dell'improvvisazione e a quella chimica creativa che da sempre contrassegna l'opera del trio australiano.
"Travels" celebra trentaquattro anni di costante ostinazione stilistica, oltreché di reinvenzione del legame che intercorre tra avant-garde, jazz e minimalismo.
Quattro tracce per un album che consolida il rapporto con la Northern spy , quattro brani che corrispondono alle facciate del doppio vinile (una scelta della band, non un'esigenza commerciale), quattro folgorazioni creative che narrano una delle migliori prove discografiche del gruppo.
"Travels" è il loro "Koln Concert" (in senso figurato non stilistico), un disco che nasce live in studio, per poi nutrirsi di strati sonori di organo hammond e mantra chitarristici dall'intrigante natura slowhand.
A Lloyd Swanton è offerto il ruolo di maestro di cerimonie e supporto costante della prima facciata, venti minuti e cinquanta secondi per "Signal", un brano che si dipana su di un minimale e magnetico riff di contrabbasso, sensuale come una jam di Miles Davis e rituale come un brano di Sun Ra, tinto da poche note di piano, alle quali si avvicendano cosmiche arie d'organo ed il vellutato fragore del rullante, che intercettano il ritmo base, prima che la chitarra ed il piano accennino esotismi world che ora rafforzano il ruolo del contrabbasso, ora l'addomesticano ai dettami free delle jam-session; a dettare ulteriormente tempi e ritmo v'è il flusso costante della batteria, che nell'apparente immobilismo tecnico nasconde un furore dinamico che dona ulteriore slancio emotivo.
I primi ardori di "Forming" (venti minuti e tredici secondi) sono pochi accordi di piano in libertà armonica, elevati ad onirica visione afro-jazz dal fruscio dei piatti e delle percussioni, una musicalità sospesa e notturna simile ad una partitura orchestrale, affine per creatività e ricercatezza, ad alcune delle pagine più nobili della musica jazz e sperimentale degli anni 70, una delle vette assolute della band australiana.
L'organo hammond, il brusio metallico del frastagliato corpo ritmico, l'adulterato timbro del basso, note di piano apparentemente disordinate, il sofferto vagare della chitarra elettrica, danno alfine corpo all'esoterica jam blues-jazz-etno-ambient di "Imprinting", diciassette minuti e quattordici secondi di divagazioni di stili e linguaggi, che tracciano un immaginario ponte tra John Coltrane, Miles Davis, i Can e Jon Hassell.
Ennesima saga musicale anche per l'ultimo insieme di "Bloodstream" - diciotto minuti e trentotto secondi - poche cicliche note duplicate all'infinito, messe in fila da un organo a canne dall'incedere sacrale, da accordi di piano più generosi, e da un'evoluzione di canoni funk, di jazz modale e accenni rock grevi, che si frantumano e si rigenerano.
Ancora una volta i Necks onorano l'approccio originario e creativo che da "Sex" fino ad oggi ha reso la loro musica identificabile e peculiare. "Travels" è l'ennesima magia che si ripete, a prima vista non dissimile da quanto elaborato in passato, eppur discordante ed originale, settantasei minuti e cinquantacinque secondi di una musica radicata nel jazz e nell'avanguardia sperimentale, altresì libera da vincoli di genere, un piccolo capolavoro che si candida già da ora tra i migliori album dell'anno.
02/03/2023