E alla fine fu trio. Eric Chenaux (voce, chitarra elettrica) Ryan Driver (Wurlitzer, voce) e Philippe Melanson (percussioni elettroniche, voce): questa la formazione che vede accantonare la denominazione solista per il chitarrista e songwriter canadese in favore di un’immersione più profonda nelle pieghe del jazz (da cui la tipica denominazione trio) e una più sensibile attitudine al soul e al blues.
Restano stranianti e dissonanti le alchimie sonore che hanno impreziosito album come “Say Laura” e “Slowly Paradise”, archetipi di una metodologia che ha sollevato paragoni illustri, e in parte scomodi, non solo con John Martyn e Nina Simone ma anche con il Tim Buckley di “Lorca” e la visionaria elettronica di Arthur Russell.
“Delight Of My Life” pone tutto quanto sopra esposto al servizio dell’album più soul del musicista canadese, ma soprattutto coinvolge a pieno titolo gli altri due artisti in un processo creativo sempre più elaborato e sinuoso. Il risultato è un album intrigante, che svela pian piano il proprio fascino ambiguo, sensuale e alieno.
La voce sempre più tagliente e personale di Chenaux è uno degli elementi che agevola le attitudini jazz, ma pur incorniciata nella tipica formazione in trio, la band del canadese è lontana dallo stereotipo di genere. Wurlitzer e percussioni elettroniche sono più pane per i denti di una formazione fusion o disco-soul (Melanson campiona anche piatti spazzolati e rullanti senza mai usare una vera batteria) e, per quanto scompigliate, le composizioni sono ricche di elementi folk e pop alquanto indigesti ai cultori del jazz.
“Delight Of My Life” è una raccolta di canzoni strascicate e sensuali, che a volte sembrano andare alla deriva, rinvigorite da alchimie vocali naif e da un assolo di chitarra dal prodigioso languore (“Simply Fly”). Un ulteriore elemento d’evoluzione artistica è racchiuso nel maggior rilievo dei testi: la musica di Chenaux, mai così verbosa, è sempre più vicina alla tradizione della poesia americana (“Light Can Be Low”). Il canto dialoga spesso con le tastiere di Ryan Driver con effetti surreali e volutamente disturbanti (“This Ain’t Life”), la stessa parola diventa fonte di distrazione e confusione, i sette minuti e quaranta secondi di “I’ve Always Said Love” sono caratterizzati dal pernicioso termine shake e da un cantato sensuale eppure insano.
In questo delizioso gioco di contrasti, non inganni la carezzevole fluidità di “Hello Eyes”, un brano che, seppur privo di quelle lievi alterazioni altrove imperanti, cela dietro le piacevoli soluzioni soul-jazz ed elettroniche le stesse imperscrutabili alchimie che hanno reso la musica di Eric Chenaux un’esperienza sempre gratificante e stimolante.
10/06/2024