Io mi perdo in mezzo ai viali come a un labirinto
E mi fermo solamente per sbagliare via
Vago dentro la città come fosse un dipinto
E cammino qua solo per ore
Ottavo album di studio per Alessio “Murubutu” Mariani, praticante più unico che raro di un rap letterario pieno di suoni classici da hardcore anni Novanta e complessi, densi testi d'ispirazione alta, costantemente intenti alla dimensione narrativa. Se in passato aveva sacrificato alle esigenze dello storytelling quasi tutto, da "Gli ammutinati del Bouncin'" (2014) ha trovato una più sostanziosa dimensione musicale: più storie e meno Storia. Produzioni più curate, un comparto di ospiti selezionati e la forza dell’esperienza hanno condotto, senza grandi stravolgimenti, fino a questo “La vita segreta delle città”. Il tema centrale è quello dello spazio urbano, da intendere come, dice il rapper, “un libro di pietra su cui scivola la storia” e “un organismo vivente e senziente”.
Ispirato, neanche a dirlo, da vari suggestioni letterarie (da Joyce a Calvino passando per Balzac e Woolf), cinematografiche (“Il cielo sopra Berlino” di Wenders) e anche da fatti di cronaca, è un racconto che piacerà a chi si ritrova nel sound hip-hop di venti e più anni fa ed è pronto a dedicare all’album un ascolto attento e attivo.
Murubutu snocciola i testi, quasi li sussurra, sin dall’iniziale “La città degli angeli”, e incontra la voce dolce di Erica Mou in “La vita segreta”, un pop-rap romantico con tanto di archi. Nell’affastellarsi di riferimenti culturali, a tratti un po’ faticosi da digerire, emerge comunque l’emozione vibrante di “Grande città” o del brano, forse il più commovente, dedicato al complesso tema dell’immigrazione: in “Minuscola” un pianoforte lacrima su un boom bap sofferto, mentre si racconta la storia tragica di Yaguine Koita e Fodé Tounkara, due bambini morti assiderati nel 1999 dopo essersi nascosti nel carrello di un aereo partito dalla Guinea e diretto a Bruxelles.
La figura romantica, dolcemente malinconica e sottilmente decadente, di “Flaneur”, un quadretto parigino tratteggiato con Ivana Lcx, è un altro momento che sottolinea la crescita di Murubutu rispetto ai primi album, più didattici. Non che questo spirito sia del tutto svanito, basta ascoltare “Nora e James”, sulla storia d’amore tra Nora Barnacle e James Joyce, peraltro uno dei brani in cui è più evidente una certa debolezza nell’originalità di alcuni beat, o gli aspetti un po’ didascalici del quadretto newyorkese de “Il deserto a NYC”, con scracth da vecchia scuola ad animare un racconto distopico-fantascientifico non molto originale. C’è anche la lezione di storia in formato hardcore-hip-hop di “La caduta di Costantinopoli”, con tanto di rintocchi funebri un po’ telefonati.
La produzione più originale e contemporanea la si trova in “451”, peraltro impreziosita dalla partecipazione di Danno: un beat tribale e meccanico, il delivery che si fa aggressivo e un ritornello minaccioso e ossessivo.
Murubutu alterna mente e cuore, spazzolando epoche e mondi diversi e, anche grazie al fondamentale contributo delle voci femminili, riesce a condurci lungo 55 minuti abbondanti di concept senza affaticare. Gli si perdona un comparto di beat raramente creativi e la sua cronica assenza di autoironia e vera leggerezza. Poco - soprattutto “Minuscola”, “Flaneur” e “451” - merita di stare tra i suoi brani migliori, anche perché nessuno stravolgimento è avvenuto nel sound complessivo, nella sua idea matura di hip-hop letterario. È un gusto acquisito e se siete già accostumati e appassionati, potreste aumentare il numeretto del voto di un punto. Il titolo cita un libriccino di Suketu Mehta.
12/03/2025