Snobbati, al di fuori del loro paese, da pubblico e critica, frettolosamente
classificati come corrispettivo olandese dei Pretty Things, i Q 65 di Joop
Roelofs e Peter Vink restano senza dubbio la sorpresa più godibile riservata a
chi abbia il coraggio (o semplicemente la voglia) di addentrarsi nel bizzoso
panorama beat olandese dei Sixties. Cultori inconsapevoli del
blues di Willie Dixon (ammetteranno di aver sentito le sue canzoni in versioni
reinterpretate da altri, quando qualcuno domanderà loro perché abbiano infarcito
il loro debutto di cover di questo artista), e appassionati ascoltatori di
r&b, fecero a pezzi entrambi i generi, con un approccio garage sadico e
rude, frammentando il groove in fraseggi di basso e chitarra (quando non
c'era l'armonica a dare man forte), ora miagolanti e taglienti come rasoi, ora
paranoici e infetti, pungenti e dissonanti, per forgiare un sound
nichilista e abrasivo: senza saperlo, per una sorta di naturale inclinazione (e
anche per la scarsa tecnica, bisogna dirlo), andavano proprio nella medesima
direzione delle avanguardie di blues-rock estremista britanniche.
"You're The Victor" uscì a febbraio del 1966, caratterizzata da un
discreto appeal melodico, gioiellino bluesy guidato dall'armonica,
che cercava di cristallizzare in un formato vendibile l'estrosa esuberanza dei
cinque loschi figuri olandesi. Molto più significativo era il lato B, "And Your
Victor", un blues più tranquillo, almeno per quanto riguarda il ritmo, che a
sentirlo oggi suona un poco come le prime cose degli Who (certo, con una pronunzia decisamente
più goffa), con un arrangiamento scarno e una vocalità a tratti appassionata a
tratti annoiata e ai limiti della stonatura.
Il secondo singolo "The Life I
Live" è tuttora la canzone più famosa (se di fama si può parlare) del gruppo,
con un ritornello fin troppo orecchiabile e un sound sporco ma
decisamente disciplinato che ricorda un po' certi complessi beat italiani di
quei tempi. Anche in questo caso è il lato B a fornire spunti più interessanti,
"Cry In The Night", con sprazzi di chitarra graffiante e un testo, per la prima
volta, appropriato (ricordiamo che questi poveracci sono olandesi…).
Dopo un "lancio" nel Regno Unito riuscito solo in parte, il gruppo
pubblica il suo primo album: Revolution, un disco straordinario su molti
fronti (no, la copertina non è uno di questi). Pieno di piccoli capolavori da
riscoprire, come "Just Who's In Sight", divisa tra un raga visionario guidato
dalla chitarra a guisa di sitar e un incedere alla Kurt Weill impreziosito da un
assolo di ocarina (!), per non parlare del blues confusionario e scazonte di
"Down At The Bottom" (cover di Willie Dixon), Revolution rimane uno dei vertici
della scena garage-blues, uno di quei dischi che fanno la gioia dell'ascoltatore
smaliziato, che li sente un poco suoi, ammaliato dai fraseggi chitarristici,
vertiginosi fino alla nausea, di "Summerthoughts In A Field Of Weed" (che
ricorda un poco certo Beefheart) e dal
coinvolgente ritmo funky (anche se, come al solito, un po' scazzato) di "Get Out
Of My Life, Woman" (cover di Allen Toussaint). E ascoltando la grandiosa
suite (13 minuti) che la band costruisce su "Bring It On Home" di Sonny
Boy Williamson, divisa in numerose sezioni, con una parte centrale in cui il
gruppo cita il Bolero di Maurice Ravel, allora sì viene spontaneo gridare al
capolavoro. Peccato che il disco sia rovinato da alcuni episodi un poco
sottotono come la cover di Otis Redding "Mr. Pitiful", che impiega pure una
sezione fiati con esito qui non troppo entusiasmante.
Durante
tutto il 1967 e il 1968 la band si concentra piuttosto sull'attività
concertistica (soprattutto in patria) e sulla promozione di una serie di
singoli: "I Despise You", caratterizzata da un riff violento e da una melodia
semplice e orecchiabile, "From Above", una "World Of Birds" sempre più vicina
alla psichedelia, così come la coraggiosissima e tribale "Sundance", che
aggiunge sonorità nuove al bagaglio della band e anche il blues più canonico (ma
suonato con una furia selvaggia) di "So High I've Been, So Down I Must Fall". Ma
è soprattutto l'Ep Kjoe Blues (1967) che si fa notare in questo periodo:
ideale corollario a Revolution, presenta una sentita cover di "Ramblin'
On My Mind" di Robert Johnson,
oltre alla sbarazzina e divertita "Ain't That Lovin' You Baby", all'incedere
ancora una volta zoppicante di "No Place To Go" e allo strumentale "80% O".
Tutto il materiale uscito sui singoli e sugli Ep di questo periodo viene
raccolto in un disco pubblicato nel 1969 e presentato come secondo album del
gruppo (anche se non si tratta di un seguito meditato a Revolution),
Revival, discontinuo e frammentario per natura, vista la sua origine.
Anche il materiale nuovo, per la prima volta, non è all'altezza delle
aspettative: pare che la vena dei Q 65 sia ormai stagnante.
L'arrivo
della stagione progressive non
fa che peggiorare le cose: i Q 65 non sono come abbiamo già visto esperti
musicisti, anzi potrebbero essere designati come un complesso punk
ante-litteram (va molto di moda questa definizione ai nostri giorni), e,
smaniosi come sono di ottenere i dovuti riconoscimenti dal panorama musicale
internazionale, guardando ormai oltre i confini della propria patria, non sanno
proprio che direzione prendere. E invece di approfondire questo loro discorso,
forse anche perché la loro ispirazione si è inaridita (e sicuramente anche a
causa delle tensioni all'interno della band, che portano alla cacciata del
batterista Jay Baar nei primi mesi del 1970, sostituito da Beer Klaasse), eccoli
che si reinventano in chiave hard-rock, infarcendo i loro dischi
con goffi tentativi di "elevare" la loro musica e le loro composizioni.
E così, sospesi tra misticismo, le loro radici blues
e r&b, hard-rock e pruriti progressivi, sfornano quel polpettone informe che
è Afghanistan, i cui unici pregi sono una cover di "Nobody Knows You When
You're Down And Out" e la ballata "Don't Let Me Fall", immerse nell'indifferente
e soporifera noia di un lavoro tremendo, che oggi suona terribilmente datato.
Per non parlare del seguito We're Gonna Make It (1971), un'ulteriore
caduta di stile (se possibile) in una direzione che porta allo scioglimento nel
1972.
Il gruppo si riformerà nel 1980 per una serie di tournée
locali, ma si scioglierà di nuovo entro un anno.
E' difficile oggi fare
una stima dell'eredità dei Q 65 nella storia della musica, anche perché sono una
di quelle band a cui la critica è solita negare una reale importanza storica,
incanalandole in un filone ben definito ed esplorato in precedenza da altri (in
questo caso i nomi che saltano più rapidi alla mente sono Yardbirds e Pretty
Things, ma anche Ten Years After e Cream), ma comunque invito chiunque a
tentare di riscoprirli (per quanto sia possibile rintracciare i loro dischi,
almeno qui in Italia), perché se forse non assicura all'ascoltatore una novità o
non lo spinge a provare l'ammirazione che si sente per una genialità creatrice,
sicuramente l'ascolto di Revolution e dei primi lavori di questi cinque
olandesi è godibilissimo ancora oggi e, anzi, oggi forse ancora di più che
allora, così come è per gli album dei loro più illustri contemporanei.