Joni Mitchell

Hejira, un diario di viaggio e di vita tra folk, blues e jazz

I was driving across the burning desert
When I spotted six jet planes
Leaving six white vapor trails across the bleak terrain
It was the hexagram of the heavens
It was the strings of my guitar
Amelia it was just a false alarm

È un diario di viaggio, “Hejira”, che rischia di non risaltare nella discografia della sua autrice: perché è in continuo movimento, cangiante e disorientante, ma anche perché a firmarlo è Joni Mitchell. Una delle massime cantautrici nordamericane, giunta qui all’ottavo album dopo aver già consegnato alla storia la pietra miliare “Blue”, racconta la sua vita tra il ‘75 e il ‘76, tra un tour con Bob Dylan, una serie di concerti per promuovere il precedente, complesso e per certi versi spiazzante “The Hissing Of Summer Lawns” (1975) e un viaggio con due amici da Los Angeles al Maine, con ritorno in California in solitaria. È un periodo in cui rischia di perdersi dietro la cocaina, una dipendenza che curerà grazie all’incontro con un maestro buddista proprio durante il lungo ritorno da sola.
I musicisti rock coinvolti in “Court And Spark” (1974) e “The Hissing Of Summer Lawns” (1975) hanno tolto qualche sfumature all’impalpabile poesia della cantante, che questa volta vuole rimediare rivolgendosi a strumentisti di estrazione jazz. La svolta è l’incontro con il bassista virtuoso Jaco Pastorius, capace di accompagnare il vagare lirico della cantautrice, impegnata alla voce e questa volta soprattutto alla chitarra, senza mai risultare soverchiante: la musica come parte del diario di viaggio, più o meno letterale o allegorico, a completare le suggestioni. Gli altri musicisti non sono comunque meno che lodevoli nel loro decorare con delicatezza i souvenir della Mitchell.

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Le nove canzoni sono più composizioni o “scene”, collegate dal tema portante del viaggio: paesaggi e animali, sensazioni e riflessioni, allontanamenti e ritorni. Più che svilupparsi in modo lineare, i brani vagano, spostandosi seguendo la direzione dei testi densi della Mitchell. L’apparizione di un lupo della prateria è spunto per il folk jazzato in forma libera "Coyote", un inno dalle sfumature oniriche dove l’osservazione del paesaggio diventa l'occasione per ricordi e immagini più o meno correlate. La Mitchell accelera nello sproloquio e con incredibile naturalezza riscopre il lirismo, in una instabile fusione di parlato e cantato, discorsivo e poetico. Ancora più raffinata "Amelia", con una dolcissima chitarra di Larry Carlton, il vibrafono di Victor Feldman e un testo enigmatico: una ninna nanna che diventa carillon o fiaba folk, a seconda dei momenti, per un’interlocutrice da tranquillizzare che possiamo identificare in Amelia Earhart, una delle più importanti aviatrici del primo Novecento; il “falso allarme” che ricorre nel testo è il centro di un dialogo immaginario tra la Mitchell e una figura leggendaria e drammatica, morta in circostanze mai del tutto chiarite nel Pacifico.

Il viaggio continua con l’anfibia "Furry Sings The Blues" - all’incrocio tra blues folk e jazz - e la dedica dolceamara di "A Strange Boy", un partner acerbo che fa riscoprire il proprio sé adolescente. La lunga "Hejira" ha un titolo, lo stesso dell’album, che si riferisce all'esodo di Maometto, assieme ai primi devoti musulmani, dalla natia Mecca alla volta di Yathrib. È forse il brano in cui è maggiore il contributo di Pastorious e del suo basso fretless (senza tasti), una seconda voce che divaga come e più della Mitchell in un testo pieno di brevi visioni, riflessioni, riferimenti.
Ancora più lunga, "Song For Sharon" si dipana per quasi nove minuti, con cori e una struttura più circolare e regolare: è il brano più vicino al linguaggio di Dylan e si propone ancora come un confronto tra due donne, contrapposte sul tema del matrimonio. Solo "Black Crow" cede a un bisogno di maggiore ritmo e sintesi, prima che "Blue Motel Room" consegni il brano più calligrafico dell’album: difficile rimanere impassibili davanti a questa voce, ma è una cartolina bluesy che non eguaglia l’elegante creatività degli episodi maggiori dell’album. Chiude un altro ibrido folk, blues e jazz come "Refuge Of The Roads", con un inaspettato crescendo verso il finale.

“Hejira” racconta storie in cui perdersi, dove scorgiamo la complessità emotiva di Joni Mitchell e di riflesso di noi stessi. Porta questo a noi attraverso dei racconti in forma spesso libera, che alcuni musicisti talentuosi contribuiscono a sviluppare in modo non sempre lineare. Si presta a una lettura esistenziale, perché è un album su cui meditare, ritornare, rimuginare, e sa regalare qualche nuova sfumatura di significato ogni volta. Più che un diario di viaggio è un estratto di un diario di vita: a ben guardare, però, sono quasi la stessa cosa.

28/09/2025