Bruno Bavota

Acquarelli dal profondo del cuore

intervista di Matteo Meda

La storia di Bruno Bavota assomiglia tanto a una di quelle favole che gran parte dei musicisti sogna di vivere. Iniziata senza pretese di particolare genere, la sua carriera ha preso il volo in maniera altrettanto inaspettata e improvvisa, tanto da renderlo nel giro di soli tre anni uno dei più noti e amati volti della scena strumentale contemporanea di casa nostra. Il tutto grazie all'incredibile capacità di parlare con il suo pianoforte e la sua chitarra il linguaggio della gente, del popolo, di farlo con classe ma tenendosi lontano da artifici di genere e accademismi. La sua è una musica "facile", che fa dell'emozione un credo, che punta al cuore per direttissima. Al posto di cercare una miscela altolocata di sperimentazioni e richiami classici, Bavota ha coniato nel giro di tre dischi una forma squisita di popular music, preferendo i dialoghi fra i suoi strumenti alla più canonica forma-canzone. Una musica che riflette le caratteristiche della sua città natale, Napoli, ad oggi fra le sue principali fonti d'ispirazione. Il suo segreto? Probabilmente non lo conosce nemmeno lui, ma abbiamo provato lo stesso a farcelo svelare nella chiacchierata che segue.

Parto facendoti la stessa domanda che ho fatto a due tuoi contemporanei, Federico Albanese e Fabrizio Paterlini: è un momento piuttosto positivo per voi compositori dell'area cosiddetta modern classical. In tantissimi stanno riuscendo a trovare il modo di uscire dall'oblio. E in tantissimi, proporzionalmente, si avvicinano con sempre maggior entusiasmo a un genere in passato spesso riservato ai “classicisti”. A cosa credi sia dovuto questo exploit?
Credo sia un genere che riesca a emozionare, fa viaggiare molto chi ascolta e trovo che sia trasversale perché riesce ad abbracciare un'ampia cerchia di ascoltatori. Possono avvicinarsi paradossalmente tutti, chi ascolta pop, chi predilige un ascolto metal o chi ricerca una musica raffinata.

Il fenomeno ha una portata sicuramente europea, ma per una volta sta attecchendo parecchio anche qui in Italia: hai avuto modo di vivere in prima persona quest'espansione?
In Europa si è creato sicuramente un circuito forte per quanto riguarda il modern classical, ci sono diverse etichette che ogni anno propongono artisti che abbracciano il genere. In Italia credo possiamo affermare che si sia creato un movimento anche se più di nicchia e con un background differente. Ormai ci conosciamo un po' tutti tra di noi e ci ritroviamo ogni anno a Piano City.

Ciò nonostante, suppongo non sia stato facile emergere, anche perché l'Italia continua a non essere propriamente una terra promessa, dico bene?
Emergere è davvero dura anche perché noi italiani, prima di affacciarci al mercato estero cerchiamo una possibile strada nel nostro paese. Questo crea purtroppo un grande spreco di tempo ed energie, mi spiego meglio: non essendosi creato un vero e proprio circuito di etichette/promoter che possano spingere il genere, ci troviamo di fronte a un muro che è davvero difficile abbattere, nonostante gli exploit di Einaudi e Allevi, che sono ormai al limite del mainstream. C'è ancora molto scetticismo e pochi sono pronti a “rischiare” con il genere. Credo che restiamo in un limbo molto sottile e al tempo stesso agghiacciante, oscilliamo tra la rassegna importante e l'essere considerati musica da accompagnamento durante l'aperitivo. In Italia manca ancora la convinzione che, come accade all'estero, è un genere che può essere tranquillamente proposto nei club e soprattutto credo fortemente che ci sia tanto pubblico pronto ad abbracciare il genere.

Lo strumento principe di molti dei compositori che si avvicinano a questo mondo resta il pianoforte. Quale credi sia la ragione per cui è così prediletto e nel tuo caso, che rapporto hai con questo strumento?
Il piano è uno strumento completo e al tempo stesso estremamente affascinante. Nei suoi 88 tasti ha tutto e credo riesca a rispecchiare tutte le emozioni che appartengono all'uomo, alla sua anima e al suo cuore. È uno strumento che adoro, a volte quando viaggio e non sono a casa mi manca. Difficilmente capita che un giorno non lo suoni o che non lo guardi con la consapevolezza di sentirmi ogni giorno un uomo molto fortunato.

Cosa pensi dei tuoi “colleghi” italiani? Alcuni li ho già nominati all'inizio...
Fabrizio lo considero un amico, ci sentiamo molto spesso ed è per me sempre un piacere. Ci confrontiamo sulle novità, su cosa fare, su come fare e a lui chiedo anche molti consigli e spesso ci facciamo tante risate! La sua musica mi piace molto e rispecchia la sua persona. Ho ascoltato anche il disco di Federico, non lo conosco personalmente, spero di incontrarlo presto: davvero un bel lavoro! Ho apprezzato anche molto il disco di Stefano Guzzetti, uscito quest'anno per Home Normal, un disco di solo piano, intimo e delicato.

Passiamo a parlare nello specifico della tua carriera: qual è, in breve, la tua storia? Da dove è partito il tuo percorso?
Ho iniziato a 24 anni, sono partito dalla chitarra e con il nome Adailysong formai un duo chitarra e violino di musica strumentale, senza alcune pretesa ma per puro piacere dell'anima. Poi nel 2010, due anni più tardi, registrai il mio primo album “Il pozzo d'amor” e sempre senza alcuna pretesa lo feci ascoltare un po' in giro. Il disco piacque molto, soprattutto al pubblico, cercavo di farlo ascoltare a fan di Ludovico Einaudi e affini; con mia sorpresa con un riscontro meraviglioso. Molte persone mi hanno scritto e continuano a farlo, da lì ho iniziato a crederci e avvertivo la voglia di provarci davvero anche se non sapevo bene come!
Poi una grande svolta l'ho avuta con “La casa sulla Luna”, sono riuscito a far crescere il pubblico soprattutto all'estero ed avere anche l'attenzione di diversi giornalisti, fino a portare la mia musica, ad aprile dello scorso anno, alla Royal Albert Hall di Londra che ha calamitato le attenzioni sulla mia musica. Questa è il racconto della mia carriera, io sono molto più legato alla storia emotiva che mi ha portato alla musica, una storia d'amore a lieto fine. Ho avuto la fortuna di aver trovato ciò che amo e che tiene vivo il mio fuoco interiore: puoi vivere una vita intera e non trovare mai quel fuoco di cui parlo. Anche nei momenti di sconforto, in bilico tra la voglia di combattere e la paura di non farcela, penso a quando avevo 26 anni e una laurea tra le mie mani, decisi di appendere la laurea al chiodo e tuffarmi nei miei sogni. Oggi a 30 anni, affermo con forza che è la scelta più folle e saggia che abbia mai fatto!

Al momento hai all'attivo tre dischi, piuttosto diversi fra loro. Il primo è forse il tuo lavoro meno noto, tanto che pure io l'ho riscoperto da poco: come è nato e cosa rappresenta per te?
Il primo album è sempre il primo album. E' un disco dove c'è tutto dentro, qualsiasi parte di me: amore, malinconia, lacrime, forza, passione, fragilità. E' nato nel giro di pochi mesi, tutti i brani li composi di getto. Il primo album porta con sé e con me una strana sensazione, dentro c'è tutta la mia emotività, ma a volte essendo appunto il primo, tendi ad accantonarlo e pensi solamente a migliorarti, dimenticandoti da dove sei venuto. Poi ti rendi conto che in quel disco ci sono “La danza delle stelle”, “L'abbraccio” e “Tempesta”, che rappresentano per me tre bombe emotive e capisci anche il perché molti miei ascoltatori sono legati a “Il pozzo d'amor” e di riflesso quanto ti rappresenti.

Il secondo "La casa sulla luna", è a firma di un ensemble: a cosa è dovuta questa scelta? Come è avvenuto il passaggio tra quel lavoro e il precedente?
Ho sempre adorato gli strumenti ad arco soprattutto il violoncello che accanto al pianoforte crea la perfezione. L'album esce a distanza di tre anni dal lavoro precedente quindi ha un'emotività e una composizione più matura, è un disco molto diverso da “Il pozzo d'amor” che da subito ho sentito più completo.

L'ultimo "The Secret Of The Sea", invece, è sostanzialmente l'album che ti ha consacrato, ma ciò nonostante va già in una direzione piuttosto diversa. Cos'è cambiato in te e (di conseguenza, suppongo) nel tuo modo di fare musica?
Sentivo di voler dare qualcosa in più soprattutto avvertivo la necessità di portare live un album senza mancanze, ma con la presenza di tutti i suoni che lo compongono. Ho da sempre adorato la chitarra e sono riuscito a trovare il modo di inserirla in un discorso più ampio. Non ti nascondo che è stato anche molto divertente riuscire a unire le chitarre con il piano, sia durante la composizione dei brani, sia ascoltando il risultato finale. L'approccio al modo di fare musica resta lo stesso, solo con un po' di consapevolezza in più.

Inaspettata è stata sicuramente la scelta di lasciarsi alle spalle il piano solo per incorporare la chitarra trattata... Uno sguardo che va decisamente a dirigersi a un'altra contemporaneità, quella della musica atmosferica. Come sei arrivato alla decisione di intraprendere questa nuova strada? C'è qualche ascolto che ti ha particolarmente influenzato in questo?
Ti dico la verità, avevo dei suoni in testa ben precisi che potessero accompagnare il piano e dargli un supporto in grado di ampliarne la carica emotiva, cercando sempre di mantenere la mia impronta. Ho ascoltato molto gli Hammock e ho amato subito le loro atmosfere eteree, si avvicinavano molto al suono che avevo in testa. Così dopo un po' di ricerche ho trovato un delay e un riverbero che riproducevano esattamente il suono presente nella mia testa.

Ho sempre trovato di estremo fascino i titoli dei tuoi brani, così semplici e diretti, legati alle piccole cose, privi di pretese intellettuali, vivaci. E soprattutto, è interessante il fatto che trattino sempre di esperienze “vissute”, da emozioni e sensazioni a visioni e luoghi. E anche nella tua musica questo si riflette molto: tanto cuore e la maggior spontaneità possibile. Credi che questo sia un po' il segreto che rende la tua musica al tempo stesso raffinata e accessibile?
Ti ringrazio tantissimo e hai centrato perfettamente la domanda. I nomi non sono mai casuali e, come hai ben detto, sono emozioni, visioni e sensazioni. Ogni titolo rispecchia esattamente l'emozione vissuta, un momento sempre diverso e intenso, cercando di accogliere l'ascoltatore, di accompagnarlo lentamente alla mia emozione che poi spero possa essere la sua. La bellezza risiede sempre nella semplicità, in ciò che è essenziale.

Ti offenderesti se dovessi definirti “il volto pop della scena modern classical”? Perché secondo me pop è una parola bellissima, che risponde a tutte le caratteristiche che ho elencato nella domanda precedente...
Ma credo sia una splendida definizione, quindi me la prendo con immenso piacere!

Come ho già detto, c'è parecchia carica emotiva nei tuoi brani, per quanto si tratti di un'emotività fatta di piccole cose e non di psicodrammi... Si tratta di un approccio voluto, di cui sei cosciente, al comporre, o fa sempre parte della spontaneità di cui parlavamo prima?
In realtà con il tempo ho capito che la mia musica rispecchia il mio approccio alla vita che credo e spero sia passionale e positivo. Questo non vuol dire che compongo i brani con il sorriso sulle labbra, anzi, molto spesso mi è capitato di piangere e fortunatamente mi capita ancora, un giorno sarei seriamente preoccupato se non dovessi più piangere! Forse cerco di tramutare il dolore, le insicurezze, le difficoltà, le ansie in qualcosa che abbia un'accezione positiva. Il dolore che proviamo un giorno ci sarà utile e se non mi fossi più volte chiesto il mio posto nell'universo, la musica non mi avrebbe salvato la vita e ora non sarei qui!

In generale e in linea di massima, come nasce un tuo brano? Sebbene presumo si tratti di procedimenti sempre diversi...
Nasce quasi sempre da una sensazione provata in un determinato momento, da uno stato d'animo. Può succedere nei modi più disparati e inaspettati, è come se avvertissi qualcosa dentro che smuove la mia anima, un fuoco che attraversa ogni parte di me. Quando questo succede so che è il momento di abbracciare il pianoforte e aspettare solo che mi riscaldi e mi conforti. Alla fine i miei brani parlano di abbracci, di stelle, di case sulla Luna... di luoghi lontani, ma anche molto vicini al nostro cuore.

Tornando alla tua carriera, il tuo primo lavoro è uscito su Lizard, una piccola istituzione dell'underground italiano. Come sei arrivato a incontrarli e come ti sei trovato a lavorare con loro?
In un negozio di musica della mia città (che bei tempi!) c'era un commesso molto attento a tutto il panorama underground indipendente italiano e non. Gli feci ascoltare il disco e mi parlò della Lizard. Scrissi una mail e mi rispose il titolare della Lizard (Loris Furlan), una persona davvero meravigliosa con la quale è nato subito un rapporto di stima reciproca. Mi sono trovato benissimo a lavorare con lui, il mondo della musica ha davvero bisogno di persona dotate della sua umanità. Purtroppo essendo un'etichetta prog, sono stato “costretto” a cercare un'etichetta con un catalogo più vicino al mio genere.

Ora sei invece arrivato a un'altra bella realtà, più giovane e in via di sviluppo, come Psychonavigation. A mio parere, molto più vicina a te sia per l'approccio che per la tipologia del catalogo. Di quest'esperienza cosa puoi raccontare?
Con Keith mi trovo benissimo, sempre a disposizione dell'artista e sempre celere nel rispondere alle mail. Mi ha molto aiutato l'avere una distribuzione fisica del disco molto ampia, raggiungendo mercati come quello giapponese dove a fine luglio scorso è uscita un'edizione limitata esclusivamente per quel mercato di “The Secret Of The Sea”. Quindi un'esperienza assolutamente positiva.

Hai intenzione di cambiare nuovamente etichetta per il prossimo disco?
Vediamo cosa succede!

Ho avuto il piacere di assistere alla tua bellissima performance al Piano City Festival di quest'anno, riuscita nonostante una marea di inside tecnico-ambientali... Come ti trovi a suonare dal vivo? Come metti in relazione il discorso di comunicazione emotiva di cui abbiamo parlato prima con la dimensione live?
Grazie! Suonare dal vivo è la mia dimensione ideale, è mettersi in gioco ogni volta. Sono una persona tremendamente emotiva e soprattutto, da quando sono piccolo, balbetto. Per una persona che balbetta, parlare in pubblico è un dramma esistenziale! Te lo assicuro! Ma il bello è anche questo, essere se stessi sempre e in qualunque luogo.

Come avevo accennato in precedenza, l'arte della musica strumentale oggi definita modern classical è stata a lungo monopolio di “classicisti” o comunque musicisti difficilmente capaci di muoversi dall'impianto accademico. Credi che quell'era sia al capolinea? E, a tuo parere, è davvero sensato definire questo genere di musica come una forma moderna di musica classica?
Io lascerei la musica classica dov'è, nella sua immensità. Non so dirti se è davvero sensato definire questo genere di musica come una forma moderna di musica classica, posso però dirti che sia più giusto parlare di un nuovo genere di musica, che ha un'intenzione e un approccio diverso rispetto alla musica classica, che resterà sempre senza tempo.

Cosa rappresenta per te Napoli, la tua città?
Per me Napoli rappresenta amore e passione, è la mia città e la adoro, mi sento molto legato al suo calore e alla sua unicità. Poi abbiamo l'altra faccia della medaglia, ovvero l'assurdità che una città come Napoli non pulsa più di musica; ci sono tanti artisti validi, ma non ci sono rassegne o luoghi dove si respira musica, quei pochi stanno chiudendo i battenti. E' paradossale per me pensare che se una sera ho voglia di ascoltare un po' di musica a Napoli, io non sappia dove andare. Sto seriamente pensando di spostarmi geograficamente, e nonostante possa essere una scelta saggia e in linea con i miei sogni, so che la vivrò come una sconfitta e sarà un giorno di una tristezza infinita.

Che progetti hai per il futuro prossimo?
Il 24 agosto suonerò a un bellissimo festival ad Aliano, in Basilicata, “La Luna e i calanchi”, poi il 31 agosto sarò al “Intersoup” di Berlino. Sto lavorando al nuovo album, ho già il titolo e, anche se sembra essere un titolo marittimo, non ha nulla a che vedere con il mare. Riguarda il nostro calore, quello che abbiamo dentro di noi.