Enrico Coniglio

La fragile identità del suono naturale

intervista di Michele Palozzo

Figura centrale nell'ambito della ricerca sul suono naturale (field recording) e membro di AIPS - Archivio Italiano Paesaggi Sonori, da molti anni Enrico Coniglio (Venezia, 1975) porta avanti un'originale forma di dialogo tra gli elementi acustici del reale e sorgenti elettroniche: due diverse pratiche di "ambientazione", di ricostruzione di luoghi fisici o immaginati attraverso una soggettività sensibile al cambiamento.
Memoria, catalogazione e conservazione di un'identità che il tempo e l'invadenza dell'agire umano sottraggono a quelli che sono veri e propri "ecosistemi" sonori, un patrimonio sensoriale al quale non è mai stata dedicata la dovuta attenzione ma che, dai seminali studi di R. Murray Schafer in poi, ha trovato sempre più adepti devoti all'ascolto, all'analisi e all'interpretazione di un universo che oggi rischia di risultare parallelo anziché intrinseco al nostro vivere quotidiano.
Con Enrico si è parlato del ruolo che l'artista assume nell'esercizio e nella diffusione delle proprie ricerche, del delicato equilibrio tra riproduzione e reinterpretazione, della necessità o meno di coinvolgere il pubblico nel processo creativo come nella "lettura" dell'opera che ne scaturisce. Ciò che conta è avere l'occasione di parlarne, ma soprattutto di prestare ascolto, e di attribuire finalmente la giusta importanza ai linguaggi spontanei coi quali il mondo ci interpella.

Da dove origina il particolare interesse per i suoni naturali? Hai conosciuto dei maestri che ti hanno condotto in questo ambito o si tratta di un'indole innata?
Il mio interesse è per i suoni dell'ambiente, dove la naturalità del contesto può prevalere oppure soccombere alla sua artificiosità. È nell'incertezza dell'esito di questo confronto che il mio orecchio, la mia curiosità, si attivano. Sono nato in una città caratterizzata da grandi spazi di silenzio, Venezia, oggi purtroppo in contrazione anche per via del turismo di massa e dei suoi effetti sulla vita di tutti i giorni.
Fin da bambino il mio orecchio è stato educato all'ascolto, trovando musicalità in tutto quello che mi circondava. Di recente ho recuperato alcune vecchie audiocassette risalenti agli anni 80 su cui ho rinvenuto delle registrazioni fatte con un Toshiba portatile, in tempi non sospetti, quando ancora non conoscevo nulla della storia della fonografia, a parte qualche opera musicale futurista. Mi portavo appresso questo walkman, nel Cadore, in montagna, e registravo fontane e uccellini e vacche al pascolo, piccoli souvenir dei posti che mi piacevano, da riascoltare poi a casa.

A differenza di altri esponenti di questo ambito, nella tua espressione artistica c'è un persistente dialogo fra le sorgenti acustiche del mondo reale e quelle artificiali - le quali, in certi casi, arrivano a confondersi e compenetrarsi. Agire in questa direzione somiglia più a una delicata "intrusione" o a un tentativo di dialogo e interscambio fra le due dimensioni?
Da alcuni anni, anche e soprattutto grazie ad alcune recenti residenze artistiche, sto portando avanti l'idea che il concetto di "margine" possa essere un nuovo modello interpretativo del paesaggio sonoro contemporaneo. È proprio sul confine incerto tra natura e artificio, landscape e manscape, che si muove la mia ricerca, per dimostrare che non sembra possibile, per molti ambiti del territorio italiano, fare semplici distinzioni.
Per rispondere alla tua domanda, direi che è più un tentativo di far dialogare sorgenti sonore differenti, in quell'area grigia dove le diverse tessere del paesaggio vengono a combaciare. Non c'è tanto l'intenzione estetica dell'accostamento di suoni apparentemente contrapposti, quanto il tentativo di una loro conciliazione, anche dolorosa, che rispecchia l'esperienza acustica del mondo in cui viviamo. Dove tuttavia, nella composizione musicale, spazio e tempo vengono piegati e ridefiniti a piacere.

Come artista ti senti più un tramite per qualcosa che esiste già e non ottiene ascolto, o il veicolo di un punto di vista più strettamente personale sulla realtà?
Non c'è dubbio che il pensiero creativo sembri talvolta sorgere in modi totalmente inattesi. Questo mi ha portato più volte a fantasticare che gli esseri umani siano dotati di invisibili percettori, delle antenne in grado di captare segnali vaganti, provenienti da chissà quale dimensione. Ma forse tutto questo è semplicemente dovuto alla grande quantità di input cui siamo sottoposti ogni giorno, che combinandosi poi a livello subconscio possono dare origine a intuizioni che talvolta si traducono in azioni creative. È certo che la rappresentazione di un luogo in forma di soundscape composition non può che dar conto di una interpretazione strettamente personale della realtà e al tempo esprimere la trasposizione di una più ampia visione del mondo.

"Astrùra" e "Solèra" formano un dittico ("Bragos series") recentemente edito dall'etichetta di musica sperimentale Silentes e dedicato alla laguna veneziana. Si tratta di un contesto ambientale e sonoro sul quale sei ritornato a più riprese: quale rapporto si è instaurato nel corso degli anni? Quali gli sviluppi che hanno condotto all'intervento più recente?
Qualche anno fa, quando cominciavo appena a mettere a fuoco il concetto di "topo-fonia", avevo in mente una Venezia più immaginifica, perciò la rappresentazione che ne facevo era senza dubbio più musicale. Oggi mi interessa maggiormente documentare l'identità del luogo e restituire un'immagine più vicina alla realtà osservata. Negli anni, il tema del suono delle aree a margine è divenuto sempre più preponderante nel mio approccio all'indagine sul territorio: l'ambiente "terracqueo" della laguna di Venezia è un ideale campo di studio in cui applicare questo modello di ricerca.
Grazie a Stefano Gentile, proprietario della label, ho potuto ridare voce a registrazioni che risalgono al 2010, raccolte durante una nebbiosa giornata di primavera nell'area della bocca di porto, divenute le Bragos series. Con "Astrùra" e "Solèra" - due 10 pollici che portano il nome di tipi di fondali della laguna, corredati da alcune magnifiche fotografie dello stesso Stefano - il flusso delle field recordings, pur svolgendo un ruolo di primo piano, è puntellato da afflati armonici che dis-ancorano l'ascoltatore dalla realtà, per creare una sorta di ponte verso una dimensione dove il pensiero fantastico è libero di vagare. In ogni caso i due lavori non vogliono restituire un'immagine nostalgica di Venezia, ma spingere a una riflessione sulla sua fragilità. Nelle note allegate ai dischi ho voluto fissare questo concetto: "Il paesaggio sonoro è una costruzione soggettiva e in costante mutamento, e la sua evoluzione, quindi, va di pari passo con l'evoluzione del territorio stesso".

Negli anni hai anche preso parte ad alcune residenze artistiche. Raccontaci un po' come si svolgono queste esperienze e quali insegnamenti ne hai tratto.
Nel corso del 2015 sono stato invitato due volte in Campania per documentare il paesaggio sonoro prima del Fortore, nell'entroterra beneventano, e poi dell'Irpinia, nell'avellinese, in entrambi i casi a ridosso degli Appennini. La prima residenza si è svolta in giugno in occasione di LIMINARIA 2015 - #unmappingtime, organizzata da Interferenze, Scafando e Tabularasa eventi. La seconda, intitolata AQUA MATRIX, si è svolta in dicembre ed è stata organizzata da Flussi Art Media Festival in collaborazione con l'associazione Irpinia Madre Contemporanea.
Nei giorni delle residenze ho avuto la possibilità di esplorare il territorio, guidato dai ragazzi delle varie associazioni, attraverso la pratica del field recording, infine di restituire il tutto in forma di sessioni di ascolto proposte al pubblico al termine dei soggiorni. Pur essendo paesaggi sostanzialmente diversi - il Fortore più bucolico, l'Irpinia più aspra, vuoi anche per la differenza stagionale tra le due residenze - quel ne ho ricavato è in entrambi i casi molto ovvio. La bellezza paesaggistica di alcune zone, urbane, rurali, montane, marginali del territorio italiano è dovuta al loro particolare isolamento, alla lontananza dalle grandi arterie di traffico, e dunque grazie al fatto che sono sfuggite, anche solo in piccola parte, alle logiche di sfruttamento del territorio.
A parte l'opportunità di visitare nuovi posti, conoscere molte belle persone e gustare favolosi prodotti eno-gastronomici, l'esperienza della residenza artistica dà un senso pieno al field recording e all'esecuzione, o installazione, basata sui materiali sonori raccolti. Non è banale proporre agli abitanti di un luogo i suoni del luogo che essi stessi abitano, per molti validi motivi: quello principale è che con gli occhi dello straniero, tornando alla domanda posta sopra, ti fai veicolo di una narrazione diversa della realtà di tutti i giorni. Un racconto che può essere in grado di mettere in moto delle dinamiche di crescita positiva del senso di appartenenza della comunità e una riflessione sulla sua identità locativa.

L'arte del field recording acquista un senso particolare nell'ascolto collettivo in determinati spazi, con l'ausilio di un'amplificazione specificamente predisposta. Fissare un'opera su formato fisico ha per te un valore di documentazione del lavoro svolto in un dato contesto o costituisce un vero e proprio "album", una prospettiva diversa sullo stesso progetto?
Da un lato credo che molti musicisti pensino al "formato fisico" come alla linea cui traguardare un periodo di lavoro - ne parlavamo assieme proprio di recente con l'amico Giovanni Lami (Lemures): apporre un segno sull'ideale asse del tempo, dell'evoluzione del proprio percorso, che consenta di proseguire oltre. Sapere che la mia musica è stata fissata su un supporto fisico mi dà un senso di sicurezza, anche se mi rendo conto dell'obsolescenza cui sono sottoposti gli oggetti di cui ci circondiamo. Credo si tratti di semplice bisogno narciso di lasciare un segno del proprio passaggio e comunque mi sento di appartenere ancora al culto dell'oggetto materiale, del suo design. Ad ogni modo, credo molto nella potenza della distribuzione digitale di file in formato ad alta qualità audio, che tra l'altro gratifica gli orecchi più esigenti e consente una maggiore diffusione. Come forse sai, con l'amico Leandro Pisano, gestisco l'etichetta digitale Galaverna che oltre a distribuire lavori di artisti impegnati in vario modo nelle pratiche del field recording, ambisce a promuovere una riflessione sul paesaggio sonoro proprio a partire dal concetto di "post-digitale".

Ancora sul carattere esperienziale: abbiamo già avuto uno scambio di opinioni sulla necessità e/o utilità di fornire all'ascoltatore gli strumenti per conoscere più a fondo la genesi di un lavoro di ricerca sul suono, sia per mezzo di ascolti guidati che attraverso workshop e performance partecipative. Alcuni artisti preferiscono mantenere un'aura di segretezza intorno al proprio lavoro, consegnando al pubblico un "oggetto finito" che sveli da sé certe pratiche o determinate suggestioni; altri si sforzano invece di giocare a carte scoperte, includendo e coinvolgendo il più possibile l'ascoltatore all'interno di un progetto, arrivando persino ad assegnargli un ruolo di co-autore. Qual è il tuo punto di vista? Pensi che in qualche misura sia necessario "schierarsi" dall'una o dall'altra parte - cioè definire chiaramente i ruoli - o che si debba trovare un equilibrio?
Non c'è dubbio che ciascuno abbia il diritto di proporsi come vuole: l'importante è secondo me dichiarare, anche in modo implicito, il tipo di approccio. Non si tratta di costruire barricate, penso sia semplicemente una questione di onestà, soprattutto per chi opera principalmente con dispositivi digitali. Dal punto di vista dell'ascoltatore, ciascuno poi ha il diritto di godere della performance semplicemente per quello che è, in modo estemporaneo e non sovra-strutturato da spiegazioni e significati indotti; una percezione puramente emotiva, non informata.
Dal punto di vista di chi presenta il lavoro - chiamiamolo per semplicità sound artist - tentare invece una mediazione, svelare il mistero (l'esatto opposto del concetto di acusmatica, in cui le cause del suono non sono rese note) può essere un modo di avvicinare il pubblico a una maggiore comprensione; non secondariamente, per dimostrare che si sta realmente operando sul suono, che a una causa corrispondono uno o più effetti.
È senza dubbio importante trovarsi di fronte a un ascoltatore attento e curioso, ma il fatto di svelare i segreti del mestiere non banalizza affatto il tuo lavoro. Per anni ho sentito il dovere di dichiarare quest'appartenenza, fino a scrivere un manifesto sull'argomento. Oggi ho radicalizzato questo bisogno con il progetto collaborativo Tavoloparlante (con Nicola di Croce) in cui, con diversi gradi di partecipazione e molta voglia di giocare, invitiamo gli ascoltatori a farsi co-autori della performance.

Qual è stata per te, sinora, l'esperienza sul campo più interessante o che ti ha dato maggiori possibilità espressive?
Recentemente un amico, Enrico Ascoli, mi ha passato un lavoro di sound design per la Bbc: un preciso elenco di "effetti sonori" veneziani da realizzare per uno sceneggiato radiofonico ambientato nel ghetto ebraico. Subito accetto con entusiasmo, abito a cinque minuti dalla zona. Peccato che la vicenda si svolga nel XVII secolo: bisogna evitare tutti i suoni considerati estranei a quel periodo storico.
Ti parlo di questa esperienza perché è stata la più difficile e frustrante sfida che abbiamo mai affrontato. Quando esci per strada e premi il famigerato tasto "rec", ti accorgi che non esiste oggi un singolo minuto in cui il cielo non sia attraversato da un aereo in partenza dall'aeroporto di Tessera. Non c'è un momento in cui una barca a motore non smuova le acque dei canali interni. In cui non passi un trolley, non squilli un telefonino, non scatti il click di una fotocamera. Quello che doveva essere il lavoretto di un paio di giorni si è trasformato in un tormento di quasi due mesi. Con buona pace di mia moglie e qualche amico, anch'essi coinvolti in questa assurda ricerca dei suoni di una città illusoria. Per realizzare che non esiste una everyday life di un passato mitico, neanche negli angoli più remoti della città. Solo il presente possiamo documentare con onestà. Come è andata alla fine? Ore di registrazioni, molte più di editing. L'impronta sonora di Schafer qui è perduta, è un falso, un inganno. La Città dei Dogi solo una mascherina a buon mercato, che soddisfa a malapena un frivolo bisogno di pittoresco.

Per concludere, i tuoi consigli di ascolto per chi volesse avvicinarsi all'arte del field recording.
In realtà non sono molto bravo a dare consigli. Vado in ordine sparso:

Brian Eno - "Ambient 4: On Land"
Jana Winderen - "Energy Field"
Luigi Nono - "La fabbrica illuminata"
Janek Schaefer - "In the Last Hour"
Daniel Menche - "Raw Recording Series (Volume One)"
Eric La Casa - "The Stones Of The Threshold"

Mi fermo qui. E in realtà la maggior parte dei lavori di field recordings che trovo interessanti oggi sono distribuiti in download gratuito da etichette quali Gruen rekorder, Crónica, Impulsive Habitat, Green Field Recordings, Galaverna (autopromozione!). Fatevi un giro e non sbagliate.

Discografia

DISCOGRAFIA SELEZIONATA
Songs From Ruined Days (Touch/Spire 2, 2010)
Salicornie - Topofonie Vol. 2 (Psychonavigation Records, 2010)
Sea Cathedrals (Silentes, 2010)
Sabbion (Green Field recordings, 2013)
OlivElegy (Impulsive habitat, 2014)
Plundering The Ancient World (13/Silentes, 2015)
Bragos series: Astrùra/Solèra (13/Silentes, 2016)
Alpine Variations (Dronarivm, 2021)
COLLABORAZIONI
Øe + Enrico Coniglio - Inner Frost (taâlem, 2013)
Lemures - Lemuria (Crónica, 2013)
Enrico Coniglio & Stefano Guzzetti - Lost & Found (2020 Editions, 2021)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Astrùra - teaser
(da Bragos Series, 2016)

Lemures - estratto
(da Lemuria, 2014)

Enrico Coniglio e Nicola Di Croce - TAVOLOPARLANTE
(Fondamenta 3.0, Venezia, 2014)

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