Gigi Masin

Il naufrago nell’oceano di meraviglia

intervista di Filippo Bordignon

(Ad Alessio Magenta, che mi ha rivelato il microcosmo masiniano)

“L’eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare”, dichiarò, lapidario, lo stilista Giorgio Armani; la riprova di tale constatazione è incarnata, in ambito musicale, dall’avventura discografica di Gigi Masin, altro grande italiano la cui produzione, una volta conosciuta, non può che suscitare un radioso ricordo nell’ascoltatore votato all’alta qualità. Autore di album strumentali in cui elettronica ed elettroacustica si coalizzano per emozionare la mente attraverso morbidezze mai zuccherose, egli vanta, in aggiunta, una carriera concertistica spesa sui palchi di mezzo mondo e collaborazioni di caratura internazionale con la crème dell’Idm e dell’ambient contemporanei.
Solo il Belpaese, guarda un po’, lo contiene nel recinto dei compositori cult, ricordandolo principalmente per essere stato campionato, a sua insaputa, da Björk, su “It’s In Our Hands”, canzone inserita nel “Greatest Hits” del 2002 che, in realtà, saccheggiava un sample dei berlinesi To Rococo Rot (titolo “Die Dinge Des Lebens”) i quali saccheggiavano, appunto, il Masin del pezzo “Clouds”, contenuto nell’onirico split con l’inglese Charles Hayward “Les Nouvelles Musiques De Chambre V. 2” (1989).
Veneziano, classe 1955, Gigi è stato un ragazzo che si sognava speaker radiofonico, attività centrata a diciott’anni. Collaborando come tecnico per il teatro e sconvolgendosi all’ascolto di Ligeti e Penderecki, inizia a elaborare musiche di scena e composizioni vere e proprie, impiegando il giradischi e un vecchio registratore a bobine della Teac; arriva poi un lavoro per gli studi veneziani della Rai, grazie al quale sperimenta usando registratori Studer, delineando, così, uno stile personale. Nel 1986 autoproduce in qualche centinaio di copie il suo Lp d’esordio, quel “Wind” che oggi viaggia su cifre stellari nei mercati del collezionismo; l’ascolto della canzone “Call Me” - in cui fa capolino la voce dell’autore, simile al ruvido timbro dell’ultimo Chris Rea - e “The Sea Of Sands”, rispettivamente prima e ultima traccia della raccolta, espongono una tavolozza di colori gestiti miracolosamente dal Korg P-800, il quale dipinge nell’etere costellazioni di stupefacente comunicatività. È l’inizio di una carriera ormai prossima al quarantennio, ricca di prove artistiche originali e godibili, un repertorio evocato senza intellettualismi che parla un linguaggio universale, perfettamente riassunto in una parola abusata ma qui veritiera: “Bellezza”.

Gigi, il tuo è un approccio compositivo che opera per sottrazione. Che bisogno soddisfi, artisticamente, togliendo?
La questione è: cos’hai per le mani? Quando ho cominciato a fare musica non avevo molto, perché acquistare apparecchiature elettroniche, 40 anni fa, era arduo. Oggi, per 50 sterline scarichi un software che emula qualsiasi cosa. Al tempo dovevi comprare un synth, una spesa non indifferente. Io possedevo giusto l’indispensabile; ai tempi di “Wind” mi regalarono un synth usato e cominciai a divertirmici. Essendo nato come chitarrista e non come tastierista, il mio era innanzitutto un divertimento. E nonostante siano passati anni e abbia accumulato esperienza, il mio approccio è rimasto questo. Quando sono a casa, non mi alleno al pianoforte; quando suono, mi limito a suonare ciò che sento.

Il tuo stile si basa spesso su sonorità acustiche, grazie anche all’utilizzo dei fiati e, soprattutto, del piano. Chi ha influenzato il tuo pianismo?
A pochi chilometri da dove siamo noi (Vicenza, ndr), una volta assistetti a un concerto del jazzista Paul Bley, persona di una semplicità e bellezza incredibili. Ricordo che vestiva un calzino di un colore e uno di un altro. Mi consigliò: “Non fare prove, limitati a suonare quello che senti. E se avrai fatto qualche errore… benissimo!”. Un approccio perfetto per me. Non avendo alle spalle degli studi classici, non posso certo fare Keith Jarrett, ma posso cavar fuori un suono o un accordo che mi commuove e mi rappresenta. Sarà fortuna o intuizione, non so, forse un incrocio di elementi fortuiti. Mi chiedi delle influenze. Nei miei anni di formazione ascoltavo molto i Weather Report. Più tardi ho incontrato Abdullah Ibrahim e Chris McGregor, con il loro jazz sudafricano. Gente che poi scopri non essere particolarmente conosciuta ma che ti fa pensare: cosa suonano questi?! Allora entri in un mondo del tutto particolare, capendo che devi fregartene e suonare ciò che già risuona in te. Non devi rincorrere le visioni altrui. Quando suonavo la chitarra c’era chi mi diceva che dovevo avvicinarmi allo stile di Pat Metheny, e io invece avevo in mente personaggi come John Martyn e Nick Drake.

Nomi, gli ultimi due, che non sospettavo, tra i tuoi ascolti formativi.
Ricordo feste di compleanno in cui suonavo con la chitarra “Suite: Judy Blue Eyes” di Stephen Stills, usando un’accordatura aperta che avevo imparato a padroneggiare passando le notti in bianco, mentre la gente intorno a me mi chiedeva di fare De André. E io a replicare “De André copia, non mi interessa”, e gli altri giù a darmi contro.

Come imparare a dividere l’ambient di sostanza dalla fuffa?
È una domanda che andrebbe girata ai giornalisti recensori. A volte leggi recensioni che ti portano a dubitare che chi le ha scritte abbia realmente ascoltato il disco. Comprendo che la categoria debba ricavare gradi di valore e autenticità per legittimare la propria funzione, ma quello è più che altro un atteggiamento di sopravvivenza di cui, come fruitore di musica, non tengo conto. So per certo che ci sono artisti, anche di un certo livello, i quali, usando un banalissimo software russo, prendono un pezzo di musica classica, lo abbassano di tot volte e lo riempiono di riverbero, variando in alcuni punti. Vengono fuori cose che neanche puoi immaginare. Ho un software del genere, nel mio vecchio iPad 2. Vedi, ci sono metodi e attitudini diversi di approcciarsi, come compositori, all’ambient; resta il fatto che se un brano ti emoziona, è musica: tutto il resto è marketing. Nel pop come nell’ambient o nel jazz. Esistono dei suoni che possono ingannare, lo capisco. Ma lì sta tutto alla sensibilità dell’ascoltatore.

L’album altrui che, a tuo giudizio, si avvicina maggiormente al concetto di perfezione.
“Mysterious Traveller” dei Weather Report. Un incredibile manifesto di musica globale. Non è solamente jazz, ma vanta la visione totale di Zawinul, abbracciata da musicisti incredibili, ritmiche sudamericane, il tutto con una capacità di fusione dei tanti elementi di cui è composto a dir poco fantastica.

Quali sono le caratteristiche della musica che non sopporti?
Faccio molta fatica ad ascoltare la nuova scena rap italiana, anche se ho due figli gemelli di 19 anni che, in camera loro, hanno un angolo con il microfono dove producono pezzi rap usando loop. Sono gli unici, attualmente, che non pagano, per usare i miei loop. Però l’approccio stilistico in cui abbondano le parolacce, la donna è trattata in maniera svilente, si parla di pistole e cose così… a quello dico basta! Almeno il gangsta rap proveniente dagli States possedeva un gusto musicale da far spavento. Loro sì che, per buona parte, ce l’avevano dentro. Non fraintendermi: anche in Italia esistono produzioni di valore, è che prevale l’atteggiamento da “sono un bandito/ sono una carogna/ spaccio droga”. Il problema è che i ragazzi non capiscono che quei concetti sottendono a un preciso modo d’essere: e ascoltata questa roba, non è che poi vadano a rapinare una banca o a spacciare droga, sicché indossano, senza saperlo, un atteggiamento di falsità. Amano una musica che per loro, in ultima, è falsa, perché quello che ti dice tu non lo metteresti veramente in pratica. Se penso ai testi di Van Morrison, beh, ero totalmente in sintonia con quello che cantava.

Ora una domanda che, normalmente, suscita una certa antipatia negli intervistati.
Sono interista, posso sopportare di tutto.

Esiste una distinzione tra musica che è puro artigianato e musica che è arte? Magari un album dei Litfiba può rientrare nella prima categoria, uno di Iggy & The Stooges nella seconda.
In primis, dobbiamo rispettare ogni espressione musicale. Pur non amando i Litfiba, bisogna capire la fatica che fa una band a vivere di musica e a suonare, in Italia. Il problema è che noi, proprio per il fatto di essere italiani, deriviamo da una cultura raffinata, che ci frega. L’Inghilterra, per contro, è una terra molto più rude, selvaggia, crudele. Anche noi siamo stati, nel corso della Storia, crudeli, ma lì c’era una miseria che, in alcune zone, permane ancora oggi. Dirai: ma noi abbiamo, ad esempio, Scampia. Ma, per quanto duro, non è un quartiere che fa paura come alcune zone periferiche dell’Inghilterra, le quali tirano fuori in chi ci vive una rabbia e una grinta a noi sconosciute. Quella è la miseria più nera, senza orizzonti. Da noi un orizzonte c’è sempre. Se vuoi davvero trovare un lavoro, da noi lo trovi, fosse anche andare a pulire le scale o consegnare pizze a domicilio. La stessa cosa dell’Inghilterra vale per l’America, altro paese crudele. Il rapporto tra bianchi e persone di colore è ancora terribile. Visitiamo New York credendo che quelli siano gli Stati Uniti; avendola girata in lungo e largo per suonarci, posso assicurarti che l’America non è come ce la raccontano nei film. Noi ci prendiamo per il culo tra Nord e Sud o tra diverse tifoserie calcistiche, ma la cosa finisce lì. Restiamo un paese con evidenti morbidezze, fortunato, se vuoi, con mamme che ancora cucinano per i propri figli, mi capisci? Il nostro è un paese pacificato, in cui magari trovi la sagra della salsiccia e puoi decidere di andarci con gli amici. In America cos’hanno? Il McDonald's. E quando non c’è quello? Il vuoto. Tutte queste differenze si riflettono sull’approccio al fare musica.

Quali sono i motivi per cui il sistema Italia ci mantiene impantanati in un malsano provincialismo?
È un paese che fa emergere principalmente lo “yes man”, perché la sua gestione deve restare centralizzata. Non passa il concetto che le nostre differenze, messe insieme, possono avere una potenza nucleare. Perciò qui i ragazzi bravi vanno via e non tornano più. La gestione dell’Italia sembra architettata appositamente per scongiurare il diffondersi del virus della cultura. Tra televisione e carta stampata, beh, non ne parliamo. Facciamo un confronto tra un programma in fascia del mattino italiano e uno della Bbc? Da noi solo cuochi, vip di quart’ordine e malattie, in Inghilterra magari un documentario scientifico su problemi specifici dell’età prepuberale. È certamente una situazione che cambierà: la storia dell’Italia è fatta di su e giù. Ora siamo al giù. Non che negli altri paesi non esistano i furbetti, ma qui manca una precisa direzione politica; nell’errore generale della politica nostrana, manca la libertà data ai singoli luoghi di fare delle cose. Manca l’anima che porta a guardare avanti con sguardo progettuale, a comprendere che ogni aspetto della società è importante; dare spazio alla molteplicità di voci presenti nel paese è un aspetto fondamentale per una sana convivenza. Questo è il compito non solo di persone innamorate della musica ma anche di persone che non hanno nulla a che fare con essa, ma che sono nella condizione di stabilire una precisa direzione. Non sto dicendo che in Inghilterra non esistano ragazzi talentuosi che faticano a emergere; ma da noi è impedito di emergere per statuto.

Non riconosci una colpa insita nel pubblico? Un concerto in Italia, ad esempio, di Robert Rich, porterà probabilmente un centinaio di spettatori; lo stesso concerto, in Svezia, ne porterà un migliaio.
No. Va bene così. Se tu, organizzatore, devi cominciare, devi cominciare da qualcosa. Il problema è a monte; bisogna capire se hai voglia di investire denaro creandoti dei problemi in questo senso, e allora sei emerito, grande rispetto. Tu non puoi chiamare per un festival un compositore italiano che si esibisce in tutto il mondo e dirgli “200 euro sono un prezzo buono per te”, e poi a un altro compositore, straniero, offrirne 15.000.

La tua interpretazione nel brano d’apertura di “Wind”, “Call Me”, rivela una timbrica di evidenti profondità. Quali voci accendono il tuo interesse?
Se mi togli Crosby Stills & Nash, John Martyn e Nick Drake, non sono niente. Martyn è quello che ha detto: questo è folk ma non solo, c’è del jazz, c’è della Giamaica, e così dicendo ti apre un mondo. Drake è contorto e semplice allo stesso tempo, qualcosa di inarrivabile che risuona comunque come un segnale per tutti gli altri; un segnale che puoi esprimerti anche in quel senso, tirando fuori le streghe che hai dentro. Adesso Drake lo hanno sentito nominare anche i semafori, ma al tempo era una scoperta per pochi. Ricordo un periodo in cui la musica aveva una tale rilevanza nelle nostre vite che capitava di ricevere una telefonata alle due di notte da un amico, solo per chiederti: “Ce l’hai da prestarmi il tal album di Miles Davis?”.

Il grande male di cui soffre la musica oggi deriva dalla morte della curiosità?
Diciamo che la gente è indotta a cercare la novità solo in un determinato senso.

Tra le tue molte collaborazioni, vorrei una parola su tre progetti in particolare: il primo riguarda “Red Hair Girl At Lighthouse Beach” del 2023, album split con Rod Modell.
Lui ha fatto molte cose con la Silentes, encomiabile etichetta di questo encomiabile uomo che si chiama Stefano Gentile, di Vittorio Veneto. Rod fa musica incredibile, che non mi entrava, inizialmente, ma continuavo a pensare che avesse una gran testa. Rod conosceva bene la mia produzione e io conoscevo la sua; l’idea di Stefano, appurato il nostro interesse a collaborare insieme, è stata quella di produrre due tracce: un mio brano remixato da Rod e un suo brano remixato da me.

C’è poi l’album con il pianista Greg Foat, “Dolphins” (’23), caratterizzato da eleganti sonorità vicine al jazz.
Greg mi ha dato grandi soddisfazioni. Inizialmente dovevamo registrare nel suo studio nell’isola di Wight ma poi, causa lockdown, abbiamo dovuto operare a distanza. Abbiamo tenuto due concerti bellissimi per tastiere, piano, basso e batteria, forse ancora più belli del disco.

Infine il trio Gaussian Curve: sotto un profilo musicale, quali sono le qualità principali rispettivamente degli altri due membri, Jonny Nash e Marco Sterk?
Adesso sono due amici. Ci siamo conosciuti nel 2014; è stato Tako Reyenga, dell’etichetta Music From Memory, a consigliarci di collaborare. Così ci ha allestito un piccolo studio in un appartamento nel centro di Amsterdam: era venerdì pomeriggio. Domenica sera avevamo registrato il nostro esordio, “Clouds”. Cose che succedono. Avevo in mente quel suono americano bianco tipo Steely Dan, freddino se vuoi, ma che sa rispettare la musica di colore, il jazz, il r’n’b. Una sorta di freddezza composta, che non è mai glaciale. Il secondo disco con loro, “The Distance” (’17), è infatti molto più americano. Eravamo andati a suonare in Australia da supporto al dj statunitense Larry Heard, un’esperienza pazzesca; siamo arrivati a Sidney e abbiamo suonato in un parco stracolmo di gente che applaudiva non tra un pezzo e l’altro, ma negli spazi tra un silenzio e il successivo. E poi siamo andati a Melbourne, dove ho aperto io in solo, per mezz’ora, e successivamente ci sono stati i Gaussian Curve. Alla fine dell’esibizione ci venivano incontro persone che si erano scritte piccoli messaggi di ringraziamento in italiano. “Benvenuto!” “Ti ringrazio”. “Grande musica”. Un successo che ci ha fatto pensare: bisogna andare in Australia per ottenere un riconoscimento del genere? Per chiudere il cerchio, vorremo licenziare un terzo album.

Un quesito che divide i compositori tra idealisti e pragmatici: è più importante il processo o il risultato?
Difficile dirlo, perché il processo già ti dice quello che sarà il risultato. Un esempio. C’è da preparare un concerto a fianco di un personaggio che non sale sul palco da tempo, e noti che ha delle difficoltà e non capisce che quello che dovrebbe fare è togliersi dalle palle e limitarsi a stare dietro alla tastiera, consentendo agli altri di lavorare sull’energia. Tu già intuisci che i concerti saranno buoni ma non da pelle d’oca. Altre volte, invece, arrivi in studio da ragazzi come Marco e Jonny e si scherza insieme, in armonia: se la butti in simpatia e ognuno lascia l’ego fuori dalla porta, è garantito che sarà una bella esperienza e potrai costruire qualcosa.

Una personale forma di minimalismo è parte integrante della tua formula. Perché amiamo la ripetizione?
È un genere che mette in discussione la tua capacità di ascolto, perché il cervello dice “questa parte l’ho già sentita”, ma poi si rende conto che, nel frattempo, è avvenuto un lieve cambiamento, e ancora e ancora. Il minimalismo colpisce il tuo aspetto sensibile, perché è una musica basata su una precisa teoria matematica. Se ascolti Steve Reich, assisterai a una lentissima progressione, e anche i tuoi sensi vengono messi in discussione. Dovessi lamentarmi per le vere ripetizioni, invece, ti citerei certi cantautori che rischiano di farci venire malattie che ancora non conosciamo. Quella è una ripetizione che ci appesantisce. Il minimalismo invece è un fuoco. Pensa a certi compositori, spesso sottostimati, dell’area belga e olandese… parlo, ad esempio, di Wim Mertens, pianista eccezionale che oggi come oggi viene copiato perfino da un personaggio pur adorabile quale Nils Frahm. Ci sono un’infinità di musicisti che hanno fatto svoltare la musica e però restano dimenticati. Un altro nome formidabile è Harold Budd.

Brian Eno?
Non lo amo molto. Per il semplice fatto che si è sempre affiancato al talento altrui. Un po’ come David Bowie, che ha frequentato la crème dell’intellighenzia statunitense, così da mantenersi sempre sull’onda.

Suonare dal vivo: quali sono le peggiori situazioni nelle quali un musicista deve sperare di non incappare?
I grandi teatri, dove lavorano i tecnici più stronzi del mondo che, pur parlando inglese, preferiscono rivolgersi a te parlando nella loro lingua, per metterti in difficoltà. Poi tu fai il concerto e comunque viene bene, però tra te e te nel frattempo pensi: “Se stavo a casa era meglio”. Quella del tecnico è una figura fondamentale, perché rappresenta il tramite/la modalità con cui tu, attraverso la musica, ti relazioni col pubblico. Gente spesso sottopagata che fa questo mestiere principalmente per passione. Ma, talvolta, ti vengono messe a disposizione persone che si comportano come se tu dovessi suonare per loro.

I promoter?
Durante un evento, generalmente sono schizzati.

Il rapporto con gli altri musicisti?
Ci sono quelli che, prima e dopo l’esibizione, si chiudono in camerino. E allora mi chiedo: ma perché fai questo mestiere, se poi ti chiudi dentro? La gente percepisce se hai voglia di suonare per loro o no.

Nell’epoca della contaminazione a tutti i costi, la tua proposta sonora si evolve restando sostanzialmente omogenea.
Devo ammettere di aver anche preso parte a collaborazioni in cui non mi sono trovato bene, magari perché non mi veniva concesso lo spazio che pensavo di poter avere o perché gli altri musicisti non ascoltavano i consigli che sentivo di poter dare, ma sono comunque tutte esperienze da cui impari qualcosa e per le quali devi ringraziare. Per il resto, sono un musicista come gli altri, uno che parte dal presupposto che, in primis, deve trattarsi di un processo di crescita e di soddisfazione umana. Fortunatamente i dischi vendono, e così ti torna anche una tua parte. A volte litigo con la mia manager, la quale pretenderebbe che, nell’ambito di una collaborazione, il pezzo fosse suddiviso in 50 e 50; ma chi l’ha detto? Per me può essere anche 20 e 80. Magari io ci ho messo l’idea iniziale e l’altro musicista l’ha presa e le ha fatto fare un giro a 360 gradi, rendendola universale. Chi se ne frega? Per me non è mai una questione di percentuali, di “chi ha fatto cosa”, ma di rapporti umani.

Lo showbiz è effettivamente una giungla?
Il mondo della musica è come quello della droga: c’è il più forte e poi ci sono gli altri. Dipende da che parte vuoi stare, dipende se riesci a non lasciarti travolgere da quello più forte.

Arnold Schoenberg: “Se è arte non è per tutti, se è per tutti non è arte”. Cosa ne pensi? L’ho chiesto a Roedelius, ora tocca a te.
Qui non c’entra Arnold, ma il tuo rapporto con la gente. Se pensi che l’arte debba essere coram populo o se ti sei messo su una scranna e, dall’alto, discuti sui massimi sistemi. La musica non è dimostrare che si è più fighi degli altri. Per scrivere cose vitali, aggiungo, bisogna stare nella vita, non lontani da essa.

Perché il bordone conduce l’ascoltatore scafato a emozioni che trascendono il mondo fenomenico?
Le musiche di cui parli ci connettono con stati di oblio e benessere. Fa parte della nostra tradizione. Anche quello che è stata la musica nel Duecento o nel Trecento risuona ancora attraverso le nostre corde. Ad esempio, una quarantina di anni fa, in un festival medioevale in Umbria, assistetti a un concerto di musica sacra: a un certo punto salì sul palco un musicista egiziano con un oud. Iniziò a suonare questa musica estatica che ti porta a perderti, un’improvvisazione a gloria dell’amore. E lì capisci che, nonostante in quel caso si trattasse di una persona egiziana con una cultura diversa dalla tua, ti arrivava, la capivi. Se si possiede l’abilità di lasciarsi ascoltare dalla musica, si comprende che certi suoni che arrivano da lontano fanno comunque parte della nostra storia. Nel nostro Dna risiede anche un archivio di tutto ciò che è stato prima di noi e, in determinate situazioni, è come se suonasse un campanello per ricordarti “ehi, questa cosa l’ho già sentita, mi appartiene!”.

Manuel Göttsching mi esponeva la necessità di conferire all’esibizione di musica elettronica dal vivo una fisicità pari a quella della musica pop-rock, per meglio coinvolgere il pubblico. Come venirne a capo?
Facendo buona musica. Se il tuo suonare con, ammettiamo, due computer e una tastiera, e la tua intenzione sono sinceri, quello che crei lo crei in quel meraviglioso e irripetibile istante. Sono orgoglioso di aver tenuto concerti proprio con la strumentazione che ti ho appena descritto, esperienze in cui in sala non volava una mosca e il pubblico, infine, applaudiva riconoscendone, probabilmente, la bellezza. Il problema è quello che fai, non tanto con cosa lo fai. Certo che l’elettronica non potrà mai essere come il rock. L’elettronica è l’espressione di un compositore che usa determinati mezzi per ottenere determinati risultati. Fine. Non puoi paragonarla a un concerto dei Rammstein, i quali propongono una fisicità e un apocalittico senso della teatralità che manco i Kiss!

C'è mai stata libertà, in radio, al di fuori delle radio libere?
I soldi sono il problema e adesso le radio in frequenza funzionano per i soldi, per le pubblicità, e passano quello che gli girano certe case discografiche. È più facile fare web radio, certo, ma sono in pochi ad ascoltarle. Io ai tempi di Radio Venezia programmavo Miles; c’era la possibilità di alzare il livello, non esistevano solo i Queen, per intenderci. Adesso è un disastro.

Il sistema è sempre contro l’originalità?
I soldi sono contrari all’originalità. Manca una mente illuminata che, come nel Quattrocento, commissioni al Raffaello di turno un’opera che, magari, entrerà nella nostra storia. Manca il mecenate che scova qualcosa di valido e investe di suo, sapendo che, forse, un giorno, quella cosa lo ripagherà, ma forse anche no, e lo fa per il piacere di tentare di veicolare una visione che ritiene significativa.

Un tuo desiderio, a oggi inconfessato.
Ho desiderato collaborare con Kenny Wheeler, enorme trombettista jazz che purtroppo ci ha lasciati nel 2014. L’ho approcciato al termine di un suo concerto e mi ha trattato con una disponibilità sorprendente, fornendomi perfino il suo indirizzo di casa. Gli spedii una copia di “Wind” alla quale replicò dicendomi che lo trovava buono, gli ricordava in alcuni punti David Sylvian, in altri Miles. “L’ho ascoltato l’altra sera, a cena con amici musicisti”, mi disse. Mi sono sempre chiesto con che musicisti fosse a cena, quella sera, ascoltando il mio album.

Cosa racconta, la tua musica, di te?
Quando leggo quello che mi scrivono le persone che amano la mia musica, mi rendo conto che la questione è davvero intricata; la gente ha bisogno di confidarsi, di raccontare che è stata ferita, che sta soffrendo. Viviamo in un’epoca in cui è difficile aprirsi agli altri e se non lo fai, dentro di te non potrà entrare nulla. Quelle persone hanno accolto in loro la musica, e questa gli ha tirato fuori un pensiero positivo, di speranza, un sorriso, qualcosa che li ha aiutati. Perciò chi mi ascolta, eventualmente, può scoprire qualcosa di se stesso, più che di me.

Qual è la virtù che, più di tutte, ti auguri di possedere?
Continuare a sorridere. A ridere, a sentirmi leggero.

Qual è l’aspetto più straordinario dell'essere un artista?
Mi contatta gente che mi dice: “Durante il lockdown ascoltavo la tua musica e mi ha salvato in un momento davvero difficile”. E allora ti rendi conto che persone così ti stanno dando ciò che non pensavi avresti ricevuto, ma che, in fondo, era quello che cercavi. È l’umanità che parla. E quando riesci a fare della musica che tocca l’umanità, devi sentirti una persona fortunata.

(24 novembre 2024)

Discografia

Wind (The Bear On The Moon Records, 1986)
Les Nouvelles Musiques De Chambre Volume 2 (Sub Rosa, 1989)
Wind Collector(con Alessandro Monti, Divertigo, 1991)
Lontano (Ants, 2001)
Moltitudine In Labirinto (Ants, 2003)
The Last Dj (Laverna, 2008)
Hoshi (con Tempelholf, Hell Yeah Recordings, 2014)
Plays Hazkarà (13, 2016)
Tsuki (con Tempelholf, Hell Yeah Recordings, 2016)
Venezia 2016 (13, 2016)
Kite (autoproduzione, 2018)
Postcards From Nowhere (con Jonny Nash, Melody As Truth, 2019)
Calypso (Apollo, 2020)
Plays Venezia (13, 2021)
Vahinè (Language Of Sound, 2022)
Dolphin (con Greg Foat, Strut, 2023)
Red Hair Girl At Lighthouse Beach (con Rod Modell, 13, 2023)
The Fish Factory Sessions (con Greg Foat, Strut 2024)
Pietra miliare
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