
Stasera al nuovo, bellissimo Auditorium di Roma non si respira solo l’aroma ancora forte del legno, ma anche un’atmosfera particolare. In cartellone due esibizioni che richiamano il pubblico delle grandi occasioni: oltre ai giovani curiosi e appassionati di musica, signori ben vestiti e (presunti?) intellettuali, oltre a una tipica spolverata di vipperia assortita.
La prima parte dello show, affidata a DJ Spooky, non è presentata affatto come secondaria. Anzi, qualcuno (pochi) se ne va subito dopo aver assistito all’esibizione dell’americano, segno che c’era anche chi era venuto esclusivamente per quella.
DJ Spooky, artista multimediale cresciuto nella gloriosa tradizione dei dj hip-hop newyorchesi e nel culto di Grandmaster Flash, “costruisce” musica e filmati a riciclando e rimontando materiale preesistente. Sul suo sito, osservatorio privilegiato del suo lavoro, è possibile trovare alcuni brevi risultati del suo modus operandi.
Per l’occasione si cimenta in una versione remixed di “Nascita di una nazione” (“TheBirth of a Nation”, 1915), celeberrimo film-capolavoro (sebbene razzista) di David Wark Griffith. L’intervento è doppio: agire sulle immagini e crearne la colonna sonora in tempo reale, seguendo metodi di cut’n’paste fra loro simili. Il risultato, va detto, è meno intrigante delle premesse, sebbene interessante. Il razzismo e l’inaccettabilità morale di “Nascita di una nazione” emergono chiari, ma lo fanno anche dalla pellicola originale. Sia il risultato visivo che quello musicale sono piacevoli, ma non sconvolgono. La musica soprattutto risulta essere un gradevole, ben fatto trip hop strumentale come però, ormai, se ne sono sentiti davvero molti. Le signore (progressiste) con la pelliccia sembrano gradire molto.
Poco dopo è il turno di Mika Vainio e Ilpo Väisänen: i Pan Sonic. La prima sorpresa, per chi non li conosce, è l’austerità di impianto scenico e strumentazione, un’austerità che quasi sconfina nella povertà vera e propria. Vi anticipo, però, che sarà una scelta vincente. Innanzitutto sul palco non c’è l’ombra di un laptop. Non male, per un gruppo che si dice “elettronico”. Sopra un tavolo, pochi oggetti sono destinati a creare il suono del duo finlandese: sono alcuni degli strumenti costruiti per i due da Jari Lehtinen, da sempre il creatore del loro equipaggiamento. Sono oscillatori, una “scatola” che sere a fare i beat, nonché una specie di sintetizzatore fatto in casa. Ne esiste uno montato su una macchina da scrivere: chissà se è sul palco in questo momento… Il grande schermo alle loro spalle trasmette solo una linea verticale nera su sfondo bianco. Nient’altro. E’ il loro fedele oscillografo.
I due finlandesi offrono una performance sorprendentemente fisica, accanendosi su valvole e manopole, agitandosi, digrignando i denti, sudando come se fossero gli Slayer. Per chi li (ri)conosce, si ritrovano molti brani dei primi due dischi di “Kesto”, la loro ultima fatica, proposti uno di fila all’altro senza pause, in un unico flusso sonoro. Bassi potentissimi, ritmiche implacabili, vibrazioni, aggressioni sonore, momenti quasi ballabili. Tutto è perfetto. Nudo, diretto, senza compromessi.
La linea nera oscilla e si frammenta seguendo i suoni che Vainio e Väisänen producono: è l’accompagnamento visivo perfetto a ciò che viene proposto per le nostre orecchie. Perché i Pan Sonic fanno musica con ciò che normalmente è sottofondo, sostrato, base sulla quale imbastire melodie. E’ una sublime coincidenza con le grandi opere in cellotex di Burri che ricoprono le pareti delle zone di passaggio dell’Auditorium. Nel recupero dei materiali meno nobili come soggetto delle proprie opere, verso il termine della propria carriera, Alberto Burri diede al mondo una prova di straordinaria, geniale coerenza nel fare del cellotex (il materiale sul quale aveva fino ad allora “appoggiato” i suoi sacchi, le sue combustioni e le sue plastiche) l’unico protagonista dei suoi lavori. I Pan Sonic utilizzano le oscillazioni, i rumori di sottofondo, i battiti come unici elementi del loro suono, conferendo nuove capacità espressive a ciò che solitamente è accompagnamento, in secondo piano.
Ce n’è abbastanza per disturbare chi era rimasto alla magniloquenza di Griffith e alla musica “piena” delle serate di gala all’Auditorium. La gente, scandalizzata, lascia i propri posti. L’esodo ha inizio ai primi suoni (subito potentissimi e violenti) ed è inarrestabile. Vainio e Väisänen si troveranno a concedere il bis a pochissimi, perché quasi tutti se ne sono andati via.
Alla fine dell’esibizione, nella mia fila di sedici posti siamo rimasti solo in quattro, e la proporzione è la stessa nell’intero Auditorium. Tra chi è rimasto, fra l’altro, si possono sentire commenti sarcastici o di vero e proprio scherno, quando non sono dei semplici “Che schifezza”. Ma è anche questo che ha reso eccezionale questo concerto. Non è stato solo l’essere testimoni di un momento di particolare grazia di un duo eccezionale. E’ stato anche essere testimoni di una rivoluzione.
Azzardiamo: questa è la vera musica rivoluzionaria, oggi. I Pan Sonic proseguono quel lavoro di sconvolgimento dei benpensanti che un tempo fu del rock’n’roll, di Elvis, dei Beatles, dei Rolling Stones, o di quei Suicide a cui vengono spesso accostati. Ma, a differenza delle precedenti, la nuova rivoluzione si consuma nello spazio di una stanza da letto. Nelle cuffie di un iPod. E’ una rivoluzione individuale e muta, e quando prova a comunicarsi a chi ne è travolto, lo fa in modo totalmente incomprensibile. Per questo le signore in pelliccia se ne vanno indignate, proprio come le mamme che cinquant’anni fa portavano le figlie ai concerti di Elvis. Qui è il taglio fra generazioni e anche interno alla generazione che, in parte, porta stasera i suoi omaggi a due dei suoi più illuminati cantori.
L’indecenza, il profondo oltraggio dei Pan Sonic è nel non offrire alcun appiglio al gusto comune, nemmeno a quello degli ascoltatori scafati, ma ancora legati al dio Chitarra. Di avere come accompagnamento, in luogo di immagini astratte o filmati, una minimale linea nera agitata solo dai loro suoni. Di non essere affatto carini, di non offrire uno straccio di melodia in più di un’ora, di non concedere un appiglio, se non qualche ritmo pesantissimo. Non appoggiarsi al comune sentire di ciò che viene definito “bello”.
Più o meno consapevolmente, i Pan Sonic sono divenuti il suono dell’Urlo di Munch. Per questo sono così oltraggiosi, così scomodi, così intollerabili per chi nella vita non vuole gettare neanche un filo d’aria sul proprio castello di carte di certezze. Per questo, stasera, hanno dato vita a un concerto, ma meglio sarebbe dire un evento, memorabile.