06/06/2005

Bruce Springsteen

Palalottomatica Arena, Roma


I demoni e la polvere attendono, pazienti, che il loro cantore arrivi sul palco. Tra un vecchio blues di John Lee Hooker e una delle poesie meno conosciute di Bob Dylan, aspettiamo tutti che il nostro cantore arrivi sul palco. L’aria condizionata nel Palalottomatica non potrebbe essere più pesante, carica di tensione che aspetta solo di liberarsi con lo spegnersi delle luci e i primi accordi del menestrello del New Jersey.
Con una buona mezz’ora di ritardo, Bruce Springsteen calpesta, lento, il suolo della sua arena. Sembrano i passi di un vecchio e stanco cow-boy, con gli stivali impolverati e la melodia di “C’era una volta il west” ad accompagnarlo fino alla sua fedele platea, insolitamente comoda per un concerto rock.

Ma Bruce, stasera, non parlerà di rock e, infatti, invita subito tutti al silenzio. Lo aveva annunciato e ce lo aspettavamo. “Lasciatemi cantare in silenzio questa canzone che è un omaggio al maestro Morricone”. In un italiano perfezionato, Springsteen cerca subito di impostare il tono della sua esibizione: niente foto, flash, ma soprattutto niente urla e applausi prolungati. Quando comincia a suonare la versione “morriconiana” di “I’m On Fire” al banjo, tutto il palazzetto si ammutolisce di colpo: qualcuno piange già.
Per una notte, “The Boss” è completamente nudo, in quello che, forse, è il concerto più difficile e insidioso della sua carriera. Non c’è più la spensieratezza di “Born To Run” suonata a tutto volume in uno stadio insieme ai suoi fidi compagni. Ora Bruce Springsteen è solo, con la sua chitarra acustica e con in mano l’illusione del sogno americano.

“Reason To Believe” diventa, perciò, straziante con la sua voce a gracchiare in un vecchio microfono, neanche fossimo in uno dei sogni terrificanti di Tom Waits... Forse non c’è più ragione di credere, di avere fede negli ideali di un paese che non lo rappresenta più. Povero, vecchio Bruce: sei già diventato il poeta di una generazione messa da parte.
Allora, spazio al nuovo disco, per cercare di dare voce a chi non ce l’ha più. I senza casa di “Matamoros Banks”. Le madri scomparse di “Silver Palomino”. Il pugile di “The Hitter”.
Prevalgono brani intimi, dolenti che portano il grande e grosso “Boss” fino alle lacrime.
Da eterno ribelle a cauto padre di famiglia, Springsteen si avvia al pianoforte per dedicare a tutti i genitori una bellissima “Incident On 57th Street”. Quello di stasera è un concerto particolare, e Bruce fa uno strappo alla regola annunciata all’inizio del tour. E’ vero, non abbiamo ascoltato nessuna versione acustica di “Thunder Road”, ma “The River” e “Racing In The Street” hanno brillato in tutto il loro nostalgico splendore.

E il suo adorato e fedele pubblico? “The Boss” non dimentica quanto abbia voglia di alzarsi da queste maledette sedie scomode e, ogni tanto, suona la carica. Nonostante un problema alle corde che lo costringe a cambiare chitarra, la nuova “All The Way Home” riesce a coinvolgere il pubblico in una maniera repentina quanto impressionante. Bruce Springsteen resta sempre un vero cuore rock and roll e, tra i bis, offre una divertentissima versione campestre di “Ramrod”. A questo punto nemmeno lui può far nulla contro una folla divenuta sempre più rumorosa ed eccitata. Le sedie scomode sono un vecchio ricordo: Bruce Springsteen va visto con il petto quasi schiacciato contro il palco, con le mani tese per cercare di toccare il suo mito a stelle e strisce.
Lui se la ride, divertito, ma di saltare e cantare a squarciagola non se ne parla. “Ecco i miei figli”. In fondo, Bruce è come un secondo padre. Ma i figli devono contenere i loro ardori, perché è il turno della scheletrica, emotiva versione di “The Promised Land”.

“Once More”, grida Springsteen. Altra canzone, altra emozione incontrollabile. L’organo parte, religioso, liturgico. “Dream Baby Dream” è tutta per la sua voce potente che avvolge Roma come un calore interno che, all’improvviso, ti scoppia dentro.
Il concerto è finito, forse troppo presto, forse troppo tardi: il senso del tempo non ha più senso ormai, perché il tempo di queste emozioni è troppo difficile da misurare.

Bruce Springsteen su Ondarock