
Nulla di strano: due ballerine che definirei "espressioniste" ai lati del palco, un'orchestra di una decina (poi meno e prima ancora di più) di elementi in sai apocalittici e una cantante un po' principessa Leia e molto Grace Jones.
I riff dei Chrome Hoof si snodano all'infinito in un rituale che scivola tra eccessi rock e visioni cosmiche che si infilano ora tra le note di un'arpa, ora negli echi di un violino perfettamente a suo agio tra due chitarre e un basso. Il ritmo percussivo è ossessione pura, le braccia delle danzatrici si muovono in sincrono disegnando meccaniche a noi sconosciute mentre la voce di Lola Olafisoye diviene un'entità metafisica contingente ai suoi movimenti liberi, dolci e sensuali.
E' la "Celestial Mass", la cerimonia spaziale messa in scena dallo straordinario musicologo Andy Votel a 40 anni da quel 1969 che significa l'inizio della saga dei Magma ma anche e soprattutto il risveglio iniziato a Parigi un giorno di maggio dell'anno prima e la prima passeggiata dell'uomo sullo spazio. E' tutto qui stasera e i Chrome Hoof riescono a essere sublimi nel loro saper essere tutto divenendo dapprima mostro heavy-metal per poi cadere in un'estasi elettronica dal risveglio sensuale e violento nel pieno di una disco-music lisergica.
"Tonyte" è il centro della loro musica che termina per poi ritornare più volte durante la performance come un mantra da cui verso la fine fuoriesce JP Massiera, eroe involontario della "anti Yè-Yè generation", chitarrista surf fallito e produttore della S.E.M (Studio d'Enregistrement Mediterranean) sulla Costa Azzurra da cui nei primi anni 70 uscivano singoli divinamente eccentrici di droga e space-rock tra cui, appunto, il suo eccentrico "Midnight Massiera". Ma quella è la storia e questo è il futuro. O forse, purtroppo, solo il volgare presente.
Massiera sul palco è una figura sconsolata, grottesca. L'improvvisazione che ne esce è qualcosa di desolante, un impeto casuale di urla e goffe manipolazioni di suoni del tutto casuali, saggiamente aiutate dai Chrome Hoof che cercano di coprire come possono uno scempio sonoro che poco ha a che fare con la sperimentazione e molto con eccessi narcotici di gioventù.
La provvidenziale pausa ci riconsegna al foyer tra hippie, vino rosso, esistenzialisti dal golfino a collo alto, patatine e fantascienza. Un ragazzo al bancone del bar ha gli occhi aperti a un mondo tutto suo e racconta a un'amica di vecchia data conosciuta un minuto prima di come gli alieni avessero camminato sul palco proprio dietro il basso di Leo Smee. Inutile dire che è l'unico che ha capito lo spirito di una serata di eccessi fin troppo garbati da molti vissuta tra uno snack e Star Trek.
Fortunatamente si torna in sala, le luci si abbassano, i telefoni cellulari cessano d'esistere dal momento che la navicella Barbican è completamente schermata, io mi siedo e le soffici luci blu sembrano ondeggiare provenire da una galassia parallela.
I Magma sono arrivati in orario da Kobaïa e le prime note di "Slag Tanz" ci proiettano nel buco nero della memoria, tra le cinta eteree dello Zeuhl (o "musica celestiale") e le braccia del passato. I suoni degli psiconauti francesi bruciano il silenzio, aprono le porte dell'espressione sonora guidati dalla percussione di Christian Vander, tre voci (due femminili e una maschile), un Fender Rhodes, basso e chitarra.
Progressive, ma anche jazz rock, accenni di standard e poi ancora progressive. Di quello odiosamente pomposo e per questo eccelso, rigorosamente naif nella sua folle stesura totalmente sbilanciata eppure severamente classica e minimale.
I 27 minuti di "Felicite Thosz" spandono colori cosmici e concettualità astratta, reminiscenze no-wave risalenti a Rhys Chatham o a un chitarrismo alla Glenn Branca del primo periodo ("The Ascension"). Il viaggio è iniziato e indietro non si torna; al contrario si avanza al suono di "E.R." e della sua deriva vocale al ritmo dei piatti percossi da Vander ("il più grande batterista del mondo", secondo molti) e delle molteplici sfaccettature di una musica che, di nuovo, si affaccia nel jazz, prende a prestito l'urgenza espressiva della musica contemporanea e la trasforma in progressive attraverso il rock.
Tripudio, fine. Poi si torna su Kobaïa in un finale degno di essere vissuto. Stella Vander saluta: l'inchino, gli applausi, il sipario si chiude idealmente e il Barbican torna da dove era venuto rimanendo dov'era. Fuori la notte fa un poco meno paura.
Foto di Julia Beatty