19/10/2012

Dead Can Dance

Teatro degli Arcimboldi, Milano


Venerdì sera all’Arcimboldi di Milano il nero era decisamente il colore dominante: una folla di proseliti è affluita da tutto lo Stivale per presenziare a un rituale che si aspettava di officiare ormai da troppi anni, sospendendo la serata in un particolarissimo mood a metà via tra il ritrovo massonico e l’happening mediatico. Il culto dei Dead Can Dance poteva essere solo alimentato da una rumorosa assenza di sedici anni e questa serata ne è la conferma.
Per quanto i due signori eruditi e studiosi di world music di oggi siano musicisti palesemente lontani dal combo esoterico che fu, la componente “arcana” e l’estetica dark continuano a prevalere persistenti nell’immaginario dei fedeli, dei quali una parte consistente anche stasera è accorsa probabilmente inseguendo quel marchio depositato negli Ottanta da “Spleen And Ideal” e “Within The Realm Of A Dying Sun”.
Caso più unico che raro in eventi di tale portata, in platea manca il caratteristico chiacchiericcio di sottofondo, l’esaltazione è accompagnata da una generale tranquillità, finché le luci non si spengono e il sestetto che entra alla chetichella è accolto da una vera ovazione da stadio.

L’intro di “Children Of The Sun” provoca un sussulto emotivo tangibilissimo: il rito ha avuto inizio, apro le spalle per accogliere le orazioni del vate Perry e mi sprofondo nella poltrona per assorbirne meglio i bassi. Gli anni hanno fatto di lui un autentico sacerdote, dalle liriche meditative e “universali” al modo assorto, quasi in trance, con cui approccia il microfono per spiegare la sua voce immutata, fino al look sobrio e severo cui la recente pelata ha aggiunto ulteriore fascino.
L’esordio non poteva essere più trionfale. Seguendo la tracklist di “Anastasis”, attacca quindi “Anabasis”, su cui entra in scena una immensa Lisa Gerrard: vestito nero e lungo scialle blu, l’artista australiana è in una forma vocale strepitosa (diciamolo, anche inaspettata), si arrampica nei suoi audaci excursus canori senza l’ausilio di effetti di sorta, spazia come ai vecchi tempi dalla nenia mediorientale al canto gregoriano con estrema naturalezza. Anche le emozioni sono quelle di sempre e quando dietro di lei compare un sole “psichedelico” per un attimo si ha davvero l’impressione che quel donnone lì sia l’incarnazione della Grande Madre.

La scaletta procede con i numeri più etnici, dalla rediviva “Rakim” a una meravigliosa “Kiko” (altro highlight della serata) alternando i brani di “Anastasis” a un paio di inediti: la band suona in maniera impeccabile, nulla è fuori posto, ma tutto appare estremamente naturale e vivace, senza quella freddezza di cui è stata spesso accusata.
Dei dischi precedenti sono sopravvissuti pochi frammenti: “Nierika”, “The Ubiquitos Mr. Lovegrove”, altro tuffo al cuore accompagnato da un tripudio di applausi, “Dreams Made Flash” e soprattutto una splendida versione di “The Host Of Seraphim”, forse l’unico momento davvero “gotico” della serata.
Sul finale Perry manda in visibilio i presenti rispolverando “Song To The Siren”, chiudendo simbolicamente un cerchio aperto quarant’anni fa dal suo padre spirituale Tim Buckley e perpetuato negli anni dall’indimenticabile interpretazione di Liz Fraser, fino al ritorno della Gerrard e alla chiusura in chiave eterea della liturgia con “The Return Of The She-King”.

Mentre si riaccendono le luci e si ritorna lentamente al pensiero consequenziale, l’impressione è che il concerto di stasera inquadri perfettamente lo stato delle cose della band australiana, che forse una “Xavier” o una “Avatar” sarebbero state del tutto fuori luogo in quello che si può ormai definire il nuovo corso, la “rinascita”, del tandem Perry-Gerrard.
Questi sono i Dead Can Dance nell’anno 2012, prendere o lasciare. Per quello che ci riguarda, prendiamo di buon grado.