9/11/2013

Local Natives + Cloud Control

Estragon, Bologna


Più che una premessa, quella che segue è una pura constatazione: il folk-pop in Italia piace e non poco. In termini di risposta del pubblico, gli esempi a supporto non mancano: dai pionieri Mumford & Sons ai recenti sold-out, proprio all’Estragon, degli Of Monsters And Men e dei Lumineers. Insomma l’alt-folk è un po’ la miniera d’oro del momento, il filone da seguire: così non stupisce più di tanto che i losangelini Local Natives siano al loro terzo passaggio in Italia in un solo anno, per un totale di sette concerti fra esibizioni da headliner e apparizioni in festival estivi.

E’ anche per questo motivo che stasera a Bologna (seguiranno Roma e Firenze) il rischio sold-out non viene minimamente sfiorato; l’affluenza alla fine sarà comunque buona, con diverse persone che giungeranno solo a ridosso del set degli americani, perdendosi la convincente performance dei Cloud Control, freschi di pubblicazione del proprio secondo album “Dream Cave”. La band australiana dimostra di essere ben più che una semplice “spalla”, conquistando i presenti nella mezz’ora che gli viene concessa; un paio di brani ripescati dall’esordio “Bliss Release” e la manciata di singoli o potenziali tali estratti da “Dream Cave” bastano per farci capire di essere di fronte a un gruppo solidissimo. C’è grande alchimia fra le due guide del gruppo, Alister Wright e Heidi Lenffer, nel modo in cui le loro voci si incontrano durante l’esecuzione delle canzoni che, va rimarcato, trovano nuova linfa nella veste live. Voci di corridoio ce li danno di ritorno in tempi non troppo lunghi, per una serie di concerti autonomi: noi facciamo certamente il tifo per questa soluzione.

I Local Natives sono invece un po’ come te li aspetti: molto precisi, grande resa sonora (e da questo punto di vista non possiamo che registrare i miglioramenti dell’Estragon in questo senso), belle voci e ammiccanti quanto basta per coinvolgere e tenere vivo il pubblico. Le loro armonie vocali praticamente perfette li rendono una specie di versione aggiornata ai Fleet Foxes dei Beach Boys. D’altronde quando si hanno due dischi a disposizione dai quali pescare a piene mani brani dal coretto facile, la strada non può che essere in discesa. I cinque californiani si muovono su un terreno tremendamente attuale, puntando su chorus d’impatto alla ricerca di quell’emotività corale della quale gli Arcade Fire sono i veri propri maestri. Per essere chiari: i Local Natives ci sanno fare e anche parecchio: il palco, più dello studio, è la dimensione congeniale al gruppo e le loro canzoni - pensiamo ai cavalli di battaglia “Heavy Feet”, “Breakers”, “Sun Hands” - sono praticamente concepite proprio per essere cantate con il pubblico, spesso sollecitato e solerte nel dare risposta.
La scaletta attinge quasi in egual misura sia dall'esordio "Gorilla Manor" che dal recente "Hummingbird", scegliendo chirurgicamente i brani più catchy dei due lotti. Tutta questa regolarità provoca alla lunga una perdita d’empatia nella parte centrale dell’esibizione e rende alcuni momenti del concerto prevedibili, come i crescendo psichedelici utili per alimentare lo sfogo collettivo finale, “chiamando” il singalong del pubblico. Dettagli sui quali si può discutere per ore senza venirne a capo, tanto è soggettiva la percezione di un live di questo tipo.

L’impressione finale che ci regalano i Local Natives è di una band che si diverte a calcare il palco, convinta di quello che sta portando avanti e in costante ascesa. Decidessero di sporcarsi un pochino le mani, le cose potrebbero farsi interessanti per davvero.