22/02/2016

INNER_SPACES 2016 - #2

Auditorium San Fedele, Milano


Il programma di sala del secondo appuntamento con INNER_SPACES si fonda su un netto contrasto: due espressioni e “immaginazioni” della sound art quasi antitetiche, modellate con materie prime di derivazione opposta.
L'ospite d'onore della serata, realizzata col sostegno dell'istituto di cultura spagnola Cervantes, è uno dei luminari del field recording mondiale: Francisco López presenta l'ultimo dei suoi numerosi “Untitled”, artefatti sonori che non soltanto sono esenti dalla caratterizzazione – diremmo il condizionamento – di un titolo, ma quasi mai trovano un corrispettivo iconografico nelle copertine e nei materiali promozionali, ai quali viene spesso preferito uno sfondo nero.

L'ingegno di López è totalmente concentrato nella “cattura” e rielaborazione organica di fonti acustiche naturali, le quali spesso arrivano a perdere totalmente il legame sinestetico con la loro origine; per questo l'artista spagnolo è fermamente convinto che l'ascoltatore sia l'anello mancante nell'ultimazione dell'opera d'arte, in quanto solo egli può attribuirvi un senso (in)compiuto in concordanza col proprio apparato percettivo. Il lungo brano – circa un'ora di durata – è progettato specificamente per l'ormai ben noto Acusmonium Sator, “orchestra di speaker” che denota gran parte delle produzioni di San Fedele Musica.

Il pubblico è dunque invitato a prender parte a un rituale. Chiunque può volontariamente, poiché lo strumento messo a disposizione è uguale per tutti: per mezzo di una benda nera si ritorna al concetto originario di schermo, ossia ciò che anzitutto ostruisce od ostacola la percezione visiva usuale, libera così da quel condizionamento di cui sopra, da immagini e immaginazioni che non ci appartengono.
Una tabula rasa più facile a dirsi che a raggiungersi, dal momento che ciò richiede l'abbandono delle coordinate percettive al di là di quelle meramente visive – ossia mettere a tacere la cognizione dello spazio in cui ci si trova, degli oggetti e delle persone che ci circondano e ci distraggono per il solo fatto di essere lì, anche se del tutto votate al "silenzio in sala".
Inizialmente dobbiamo accettare ogni fase intermedia, dar sfogo anche ai pensieri e alle immagini più ovvie, prima di raggiungere un limbo situato all'estremo limite con il sogno lucido: solo così, se dapprima i suoni ariosi ci suggeriranno le volte celesti, e quelli ruvidi e profondi la grezza fisicità della terra, man mano un lieve torpore ci condurrà a rielaborare in forma libera gli stimoli aggregati nel corso della giornata.

I “visual della mente” si fanno strada a fatica, destrutturando i cliché cinematici un frame alla volta. Dopo di essi c'è la soglia dell'inconscio, e anche il solo intravederla è una conquista insperata, assaliti come siamo da informazioni che ormai recitiamo alla perfezione nella nostra memoria dei sensi.
Impossibile, nonché inutile descrivere con dovizia di dettagli ciò che è successo nel mezzo. Il solo vivido ricordo che conservo è quello di un climax finale estremamente “corporeo”, percorso da vibrazioni sempre più invasive e ticchettii di migliaia d'orologi impazziti, dalle braccia pesanti come macigni; allo sfumare del marasma meccanico ho visto – letteralmente, nel buio tra le mie palpebre e la realtà – una luce informe e verdastra, come una scarna aurora boreale, richiudersi su di sé e far calare lo scuro sipario al tempo stesso del fade-out degli altoparlanti.
Al ritorno delle luci in sala ho trovato particolarmente piacevole e significativo guardare il pubblico mentre riabituava la vista e spiegava ai vicini le proprie visioni, tracciando forme in espansione coi gesti e sgranando gli occhi nel descrivere cose che ciascuno ha vissuto in maniera differente e incondivisibile.

La seconda metà del concerto è affidata al collettivo Otolab che, come sottolineava in apertura Don Antonio Pileggi, svolge presso San Fedele quasi una residenza artistica permanente, proponendo ogni anno i frutti del lavoro a stretto contatto con l'Acusmonium, nonché processi generativi d'immagini digitali sempre più avanzati.
“sYn” è un'opera distinguibile in segmenti visivamente autonomi, guidati da un fluire di caute esplorazioni elettroacustiche e soundscape naturali inframmezzati a sezioni più propriamente ascrivibili a territori minimal-techno del secolo corrente. Iniziando con l'elementare, innocuo tracciamento di alcune cesure su uno schermo neutro, come light drawings che appaiono per dissolversi subito dopo, le giovani leve del “multimedia project” milanese procedono nel mettere a dura prova la sopportazione fotorecettiva degli spettatori, bombardati da scorie di materia rocciosa negativizzate e alternate a velocità quasi insostenibile. Exploit senza dubbio impattante, al quale segue dapprima una liquefazione viscosa, come di fenomeni carsici pervasivi e incontrollati, e infine la discesa tra le membrane interne di un cuore dalle profondità pulsanti, il quale da ultimo segna un totale distacco dall'immaginario sinora assecondato.

Una chiusura conciliante per un programma bipartito che è di nuovo l'espressione di polarità contrarie e complementari: due eloquenti esempli di ciò che oggi va a costituire un evento di matrice autenticamente esperienziale. Di fatto, la prova provata degli orizzonti ai quali S/V/N e San Fedele intendono ancora guardare, di comune accordo e con strenuo impegno.