19-07-2018

Jethro Tull

Cavea dell'Auditorium, Roma


Stasera la muffa è la nostra droga. Ne fiutiamo il profumo in lontananza, come cani da tartufo irresistibilmente attratti dal suo richiamo. O come i topi irretiti dal Pifferaio di Hamelin, che, seguendo il suono del suo flauto, lasciarono in massa la città. Riferimento tutt’altro che casuale, visto che ad attenderci c’è proprio il leggendario flauto di Ian Anderson. La speranza è di risparmiarci la fine dei suddetti roditori, evitando di finire annegati nel fiume Weser della nostalgia stucchevole e fine a se stessa. Per fortuna, l’immarcescibile leader dei Jethro Tull ha in serbo un arsenale di trucchi, trovate e ironia in grado di scongiurare questo incombente senso di malinconia che ci minaccia. Per di più, l’occasione consente di lasciarsi andare impunemente ai ricordi: l’anniversario dei cinquant’anni della storica band prog, da festeggiare sul palco, come a un party un po’ demodé di vecchi amici perduti di vista e ritrovati in una notte di mezza estate.

La Cavea è gremita di un’eterogenea popolazione, naturalmente in gran parte over 50, ma con buffe eccezioni, come giovani coppie di fidanzati o addirittura figli e nipoti di più attempati fan. A unirli, la passione per la band che debuttò il 2 febbraio 1968, nel tempio rock londinese del Marquee Club, e che prese il nome dal geniale agronomo inglese, inventore, nel 1701, della prima seminatrice meccanica.
Quando alle 21.20 Ian Anderson irrompe sul palco brandendo il suo flauto assieme ai compari di ventura, l’ovazione è garantita. Si parte con “My Sunday Feeling”, uno dei pezzi dell’esordio “This Was” datato 1968.

Jethro Tull - Roma

Alle spalle della band, sul maxischermo, vecchi televisori proiettano le immagini del glorioso passato, ma – ecco l’antidoto alla nostalgia-canaglia – la Jethro Tull-Tv riversa ironia e aneddoti gustosi, con una carrellata di personaggi legati alla storia della band che introducono i loro classici. Jeffrey Hammond, John Evan (travestito da daffodil inglese!) e Clive Bunker inseriscono idealmente il gettone del juke-box per pezzi come "Dharma For One", "A Song For Jeffrey" e "Heavy Horses". A sorpresa spuntano anche Tony Iommi - che Anderson ricorda essere stato chitarrista dei Tull per un solo concerto, prima di riunirsi ai suoi Earth, embrione dei futuri Black Sabbath – un altro mostro sacro della sei corde come Joe Bonamassa e il più giovane Slash dei Guns’n’Roses: tutti impegnati a rievocare tappe cruciali della carriera di Anderson e soci, come la sempiterna “Bourée”, riadattamento della celebre suite di Bach (ripreso poi anche con "Toccata And Fugue"), o le altrettanto amate “Thick As A Brick”, “Some Day The Sun Won't Shine For You” e "A New Day Yesterday", venate di quell’inconfondibile sfumatura folk-blues che fin dalle origini ha distinto la band di Blackpool dall’agguerrita concorrenza prog di colossi come King Crimson, Yes, Genesis e compagnia. Ma i Jethro Tull non si fanno mancare niente, inclusi sprazzi rinascimentali con il madrigale "Pastime With Good Company", scritto da Enrico VIII.

Il settantenne Anderson ha dovuto rinunciare da tempo alla sua folta capigliatura e ora inizia francamente a rinunciare anche un po' alla sua voce: si vede che fatica, ma qualche cedimento qua e là non compromette la buona riuscita della performance, che lo vede imperversare con il suo flauto traverso in splendidi arabeschi armonici e clamorosi stacchi. Certo, si avverte il fatto che ad accompagnarlo non siano più i veri Tull, ma una pattuglia di valenti turnisti, che si ritrovano catapultati un po’ per caso nel mezzo di una leggenda: il drumming d’impronta jazz di Scott Hammond, ad esempio, non può reggere il confronto con il funambolismo di Barriemore Barlow e Clive Bunker, mentre Florian Ophale alla chitarra risulta un po’ troppo pulito rispetto alla grezza istintività folk-blues del marchio Tull, del resto già dato praticamente per estinto dallo stesso Anderson nel 2014.

“Too Old For Rock N' Roll/ Too Young To Die”? Il dilemma della celebre (e sempre meravigliosa) suite del 1976 - qui riproposta in modo impeccabile - si abbatte come un macigno sulla Cavea. Ma, in fondo, chi l’ha detto che il rock sia ancora musica per giovani? Anzi, forse sta diventando proprio il contrario, e un beffardo Anderson, con la sua storica postura da fenicottero, ce lo ricorda con graffiante humour british, proprio lui che cantava “Living In The Past” e che negli anni 80 si faceva spingere sul palco in carrozzella per ironizzare sull’età avanzata del gruppo. Una vena arguta che rispolvera anche presentando “My God”: “L'hanno presa tutti come una canzone contro la religione o Dio, invece non è così, è un completo delirio!”, si schermisce, a proposito di quella che resta invece una denuncia vibrante dell'ipocrisia e della falsità delle istituzioni ecclesiastiche.
C’è dell’ironia anche nello scambio vocale tra Ian e il giovane protagonista del video di “Aqualung”, che canta al suo posto – attraverso la versione originale del disco - diversi passaggi del brano, quasi a non voler guastare quel mirabolante quadretto urbano, in magico equilibrio tra le melodie di chitarra, i glissando e le improvvise ruvidezze. In pratica, la summa definitiva dell'artigianato prog di Anderson: semplice e diretto, per colpire allo stomaco l'ascoltatore, eppure colto negli arrangiamenti, sempre complessi e raffinati.

Poi, arriva quel soffio finale, titanico, travolgente di “Locomotive Breath” che scatena una meritata standing ovation, con immancabile assedio al palco. La locomotiva di Ian Anderson corre e sbuffa ancora, incurante delle mode, dell’età e del mondo crudele. Salirvi a bordo ci è piaciuto ancora, nonostante tutto. Ora però il viaggio è finito e, chissà, forse per sempre. Restano i dischi dei Jethro Tull, memorabili oggi come allora. E quell’irresistibile aroma di muffa al quale i seguaci del pifferaio magico di Dunfermline non riusciranno mai a resistere.