
Sorprese, sì, perché se molti si aspettavano uno show con luci e ombre a causa del temerario sodalizio (i due artisti non sono neanche paragonabili per storia, ambizioni e spessore) in realtà la formula finisce per funzionare tutto sommato bene. Del resto, la familiarità dell’ex-King of pain con il reggae è ormai accademia e “44/976” è un lavoro gradevole, seppur privo di particolari ambizioni, che dal vivo guadagna maggior valore grazie agli ottimi musicisti a corredo del duo.
Quello che invece non ci si augurava non appartiene all’aspetto strettamente musicale ma al suo contesto. Organizzare uno spettacolo pop/rock con posti a sedere si rivela spesso piuttosto difficile nel nostro paese e la riflessione torna prepotente già all’ingresso sul palco delle due star: neanche il tempo di riconoscere gli accordi della strepitosa opener “Englishman In New York” e nella platea dell’Arena regna la più pura anarchia. Osserviamo ampie parti del pubblico delle retrovie scapicollarsi verso il palco, intasando tutti gli spazi liberi e le vie di passaggio in prossimità dello stesso, incuranti dei propri posti assegnati e del disturbo in termini di visibilità e confusione che procuravano a buona parte della vasta platea. Gli artisti sembrerebbero pure in palla e i brani che si susseguono notevoli, ma il caos che regna, tra gente inferocita per l’inaspettato fuori-programma e invasori poco propensi ad accettare gli inviti a sloggiare, rende difficoltosa la fruizione, bruciando pezzi da 90 sempre clamorosi dal vivo come “Every Little Thing She Does Is Magic”.
Solo dopo quasi mezz’ora la cavalleria - bardata con la divisa della security del locale - sembra venire a capo della situazione, sedando gli animi dei valorosi peones nella loro lotta di classe contro gli odiati aristocratici delle poltronissime gold. Ma lì il colpo di scena: il buon Gordon Sumner veste la calzamaglia di Robin Hood e interrompe di botto “Love Is The Seventh Wave”. “Stop this! Signore, please, stop this! It’s violence! I can’t play in front of this”, sgrida i rudi militi, spalleggiato dall’esultanza del popolo ribelle che già stava ritornando rassegnato all’ovile, ripristinando il disordine pubblico.
Per non urtare la sensibilità dei nostri lettori, evitiamo quindi di riportare i conseguenti commenti di coloro che avevano pagato i salatissimi ticket della platea (da 150 a 200 euro).
Passando oltre la sopracitata rievocazione storica, lo spettacolo si mantiene comunque su livelli davvero ottimi, grazie anche a una scaletta ben assortita, tra classici dello Sting solista, vecchie glorie dei Police, dove con “Message In a Bottle” rimaniamo sbalorditi dalla voce potente e pulita che riesce ancora a proporre questo vanitoso ultra-sessantenne, una selezione del nuovo album collaborativo e qualche classico del suo compagno giamaicano.
A proposito, e Shaggy? In questo contesto il boombastico galleggia pericolosamente tra il ruolo di comprimario a quello di vero e proprio pagliaccio di corte, nei momenti in cui si fa sfuggire di mano il suo ruolo di fomentatore di folle. Ad ogni modo, il matrimonio tra i due offre una performance divertente e colorita, che il pubblico apprezza in modo crescente allo scorrere dei brani. Se brani come “Fields Of Gold” o un’ottima “Waiting For The Break Of Day” - comprensiva di una lunga coda tra assoli del gilmourianissimo Domnic Miller e break della possente voce di Monique Musique - scaldano una folla ancora relativamente posata, “Angel” di Shaggy infiamma la platea, che inizia a ballare e non accenna certo a smettere con una “Walking On The Moon” (da segnalare un grande Josh Freese alle pelli) che sfocia nel tripudio made-in-Jamaica “Get Up, Stand Up” (ricordandoci con una lacrimuccia quando questo brano introduceva la storica reunion dei Police in quel di Torino, più di una decade fa).
I brani di Shaggy, in effetti, vengono accolti con non poco entusiasmo, almeno a guardare le frotte di signore scatenate in “Hey Sexy Lady”. Probabilmente il fatto che la presenza di Shaggy fosse già nota all’annuncio della data romagnola ha permesso un pubblico più a fuoco sul tipo di spettacolo, cosa che potrebbe non esser successa a chi ha partecipato alle date di Roma e Verona, le quali nei primi giorni sembravano proporre la sola presenza di quel furbacchione di Sting
Dopo un curioso medley tra “Roxanne” e “Mr. Boombastic”, il picco dello spettacolo arriva nel finale. In particolare “Desert Rose”, quello che è di fatto il classicone dello Sting del nuovo millennio, è resa alla perfezione grazie anche al lavoro alle tastiere di Kevon Webster.
Un concerto sicuramente notevole, che in parte giustificherebbe i prezzi come sempre vertiginosi del cantautore inglese, i quali però decadono del tutto una volta appurata la totale mancanza di ordine e tutela dei propri fan.
Oggi Robin Hood ha vinto... ma lo stesso si potrà dire per i suoi fan?