Sbirciando tra
le imposte serrate della Great American Music Hall, teatrino del 1906,
contemporaneamente casa di gioco e bordello, si ha la netta premonizione della
complementarietà tra le suggestioni dell'ambiente in questione e lo spettacolo
di Anais Mitchell, opera di vaudeville
musicale impegnato, rimuginante e istrionico allo stesso tempo. Tra stucchi
prorompenti e drappi impolverati, si scorgono gli spettri di signorotti
avvinazzati rovesciarsi dalla sedia, i cadaveri marcescenti di battone
decrepite sculettare lascivamente tra i tavoli... Lo sporco di vizi sedimentati
negli angoli, quello che tutti, oggi, cercano instancabilmente di pulirsi via
dalle mani sui lembi del soprabito, si sposa alla perfezione con l'aura
malinconicamente nostalgica (per quei sentimenti più nobili che paiono
dimenticati) dell'ultimo lavoro della Nostra: "Hadestown".
Ha ovviamente il suo ruolo nel fascino del concerto che viene il carattere di
rappresentazione teatrale di questo disco - nella fattispecie, la trasposizione
del mito di Orfeo ed Euridice nell'ambientazione cupa di un'America segnata
dalla crisi, isolata(si) ma trascinata dalla poesia verso una impervia via di
uscita. Per questo mini-tour conclusivo, Anais ha radunato musicisti della
scena locale, quali Sean Hayes, che interpreta Orfeo, Thao Nguyen (Persefone) e
John Elliott (Ade) e mantiene, coerentemente, la disposizione dei brani di
"Hadestown", percorrendolo nella sua interezza secondo l'ordine narrativo.
La sua opera brechtiana è in effetti
forse un po' schematica (i morti sono i ricchi, dai vivi stanno i poeti
affamati), ma è ricolma di un afflato innocente dal quale rimane comunque
difficile non lasciarsi coinvolgere. Tutte caratteristiche riproposte dal vivo
in maniera convincente, con un'orchestra al completo - sul palco si contano ben
16 elementi, tra i quali i cinque personaggi, più tre coriste, quartetto
d'archi, pianista, chitarrista, percussionista, etc. La stessa Anais pare
trascinante e ispirata e, seppur priva di mezzi canori eccezionali, compensa
con un carisma palpabile, tenendo la barra della narrazione (in modo molto
"americano") tra una canzone e l'altra e contorcendosi dinnanzi al microfono.
Senza nulla togliere alle performance di
Justin Vernon in studio, è soprattutto Sean Hayes, tra coloro presenti sul
palco, a colpire (con una "If It's True" da brividi) al cuore per la
personalità con cui interpreta una parte per nulla scontata (sotto il piano
tecnico ma anche d'interpretazione tout
court), quale può essere, invece, quella di Ade, o Ermes (impersonificati in maniera
più convenzionale - ma comunque egregia - rispettivamente da John Elliott e Michael Chorney). Meno azzeccata è la presenza
sul palco della Nguyen, più occupata ad affettare le pose di quella che appare
sé stessa (non del suo personaggio), che a intonare con costanza le proprie
parti, spesso perdendo fiato, forse per l'emozione.
Per il resto, pur perdendo la raffinatezza di certi passaggi del disco (il
sospiro leggiadro di Bon Iver, l'ampiezza del suono e i piccoli dettagli di
piano e archi, che riverberano qua e là) l'immediatezza della rappresentazione,
non solo musicale, ma anche gestuale e mimica, compensa alla grande, rivelando
il fascino di un'opera coerente fino in fondo al suo fascino antico: pare fatta
apposta per esser suonata "sulla strada", per vecchie bettole e bar di
periferia, tra i rumori di stoviglie e gli schiamazzi degli ubriachi. Opera
"popolare" o no, è sempre un bel sentire.