Più che un libro, "Krautrocksampler" è un totem. Inattaccabile. Quando uscì nel 1995, è bene ricordarlo, il kraut-rock non era certo à-la page come da qualche anno a questa parte, e fu proprio grazie a quelle pagine redatte da Julian Cope, e al nascente post-rock che illo tempore germogliava, facendo propri assunti cari ai teutonici dei 60's/70's, che il rock di stampo germanico tornò (forse come mai prima) a far parlare di sé.
Dunque un libro inattaccabile che però, per definizione, si espone all'attacco. Un'operazione, quella del druido, chiara comunque dal sottotitolo: “Guida personale alla Grande Musica Cosmica”. Personale, quindi soggettiva. Che poi lì c'è tutto o quasi da sapere sul kraut-rock è storia a parte, dacché il Nostro ne espone come meglio non si potrebbe la sostanza. Ma qualora si decidesse di affrontare la materia, e rimanendo comunque il riferimento principale, "Krautrocksampler" le sue pecche le ha, e occorre dirlo. Mancano ad esempio gli Embryo, che erano sì più jazz-rock rispetto ai colleghi, ma vantano una parabola di tutto rispetto. Oppure i German Oak, che avranno anche una smilza discografia (due soli album), ma di fianco ai Guru Guru non avrebbero sfigurato affatto. E poi, se ci sono Witthüser & Westrupp e il loro folk lisergico, perché non anche Sand e Kalacakra? Semplice: è una guida personale.
Tuttavia, se l'assenza dei nomi di cui sopra si metabolizza, per la peculiare proposta e i personaggi che l'hanno attraversata, la mancata inclusione degli Agitation Free di "Malesch" grida oltremodo vendetta.
Il kraut-rock fu anche una questione territoriale. Se Düsseldorf diede i natali a Kraftwerk, Neu! e La Düsseldorf, con Popol Vuh e la comune Amon Düül a muovere presso Monaco di Baviera, e con i casi isolati di Wumme per Faust e i Can di Colonia, la città che più ha dato al genere, tra gruppi e solisti, è di certo Berlino. È lì, tra le mura dello Zodiac o del Beat Club, con l'apporto di uomini quali l'agitato Conrad Schnitzler e l'accademico Thomas Kessler, che si formarono i Kluster poi mutati in Cluster, gli Ash Ra Tempel, i Tangerine Dream e, appunto, gli Agitation Free.
Siamo nella metà dei 60 quando, capitanate rispettivamente dal chitarrista Lutz "Lüül" Ulbrich e dal bassista Michael Günther, due band scolastiche uniscono le forze sotto l'influenza di Beatles e Rolling Stones, sancendo di fatto l'embrione degli Agitation Free. Se la British Invasion è l'iniziazione (tra le cover eseguite ai tempi, una “2120 South Michigan Avenue” di stonesiana memoria), sempre dalla Perfida Albione arriva l'illuminazione: è il 1968 quando, come molti loro colleghi teutonici, gli allora Agitation fanno la conoscenza dei Pink Floyd, e da quel momento in avanti la loro musica subirà una netta sterzata verso atmosfere più libere e dilatate. Suonano stabilmente allo Zodiac Club dividendo la scena con Tangerine Dream e Cluster, e sul palco - dopo un primo cantante, Michael Duwe, che ritroveremo poi negli Ash Ra Tempel di “7 UP” - li accompagna Manfred Brück aka John L alla voce, personaggio noto alle cronache locali come "the Hippy King of Berlin", che on stage si manifesta esattamente come mamma lo ha fatto. Le droghe lo allontaneranno dal gruppo (andrà anch'egli negli Ash Ra Tempel, innalzando “Schwingungen” a mastodonte quale è), così come per altri lidi migreranno Axel Genrich (Guru Guru) e Christoph Franke (Tangerine Dream). Di contro, però, aggiungendo nel mentre il suffisso Free ad Agitation, arriveranno Jörg Schwenke alla chitarra, il batterista e protetto di Klaus Schulze (che declinò l'invito a unirsi alla band) Burghard Rausch, e soprattutto il tastierista e sintetista Michael Hoenig.
Sprovvisti di cantante ma con una line-up finalmente assestata, gli Agitation Free svoltano definitivamente nel 1971, durante un concerto al Quartier Latin, quando avvicinati da un console presso l'ambasciata tedesca, ricevono la proposta di una serie di concerti in Medio Oriente, patrocinati dal Goethe-Institut, volti a diffondere la cultura tedesca attraverso lezioni di lingua ed eventi culturali. Proprio loro, che di contro a Tangerine Dream, Cluster e Ash Ra Tempel neanche avevano inciso il debutto, scelti per una simile onorificenza? Dopo un legittimo scetticismo iniziale, la cosa va in porto. È la causa che porterà a “Malesch”.
Per tutto l'aprile del 1972 gli Agitation Free suonano in Egitto (Cairo, Alessandria), a Cipro (Nicosia), in Libano (Beirut), con puntate pure in Grecia (Atene) e Libia (Tripoli). Assorbono culture e suoni da ogni dove, registrando sul posto voci e musiche che alle loro orecchie risultano affascinanti ed esotiche. Insomma, se prima erano una promettente ma basica band psichedelica, dopo questo viaggio le cose non saranno più le stesse.
Così, appena rincasati, Ulbrich, Günther, Schwenke, Rausch e Hoenig si rinchiudono in studio a Berlino e cominciano a improvvisare, ancora inebriati da quanto vissuto poco prima. Di materiale non ne hanno, tuttavia a venire fuori è un flusso di coscienza che giorno dopo giorno si cristallizza in canzone. Oltre a Uli Popp (dal giro degli spauracchi Ash Ra Tempel), ad accompagnarli c'è il leader dei Between Peter Michael Hamel, uno che di esotismo applicato al rock ne sa abbastanza.
Alla fine le canzoni di "Malesch" - termine egizio che invita a prendere eventi apparentemente negativi con leggerezza, senza preoccupazioni - saranno sette, e una volta missate, verranno integrate col materiale registrato durante il viaggio.
La prima traccia è subito una vertigine. In “You Play For Us Today” un parlato lontano fa da sfondo all'intro di basso e synth, con campanacci e organo a seguire. Le percussioni entrano in sordina, così come la chitarra. Poi il magma. È un crescendo d'insieme ipnotico che spaventa e rapisce. O più semplicemente, una delle tracce più visionarie del kraut-rock tutto. La voce che introduce è una registrazione sul campo, così come la musica da danza del ventre che apre una “Sahara City” meno vertiginosa ma non meno trascinante. “Ala Tul” è nuovo miracolo: ostinato di tastiera con percussioni ipnotiche e basso quasi funk. Come una versione rock di Terry Riley epoca “Persian Surgery Dervishes”.
Gli esperimenti al sintetizzatore di Michael Hoenig in “Pulse”, posta a metà disco, inaugurano di fatto un cambio di rotta non drastico ma evidente. Permane l'appeal esotico, ma nello stesso tempo prende forma una psichedelia di deciso stampo anglo-americano. “Khan El Khalili” (che saccheggia certi Popol Vuh post-“Hosianna Mantra”) sembra infatti farina dei Pink Floyd più quieti, cinta com'è di sognanti chitarre acustiche ed elettrica a cesellare.
In coda, una nuova registrazione sul campo, una sorta di canto da muezzin, si lega alla title track. Stavolta lo scenario odora della California più misterica, tra i Grateful Dead di “Dark Star” e i Doors di “The End”. Una di quelle jam che potrebbero durare per sempre, se non fosse per le leggi del supporto e dunque dei tempi ristretti. La brevilinea “Rücksturz” non ha nulla di che, se non la perfezione per un finale.
Un disco che è nello stesso tempo musica formidabile e diario di viaggio, oltre che un modo di pensare. Malesch, appunto.
02/02/2014
1. You Play for Us Today
2. Sahara City
3. Ala Tul
4. Pulse
5. Khan el Khalili
6. Malesch
7. Rücksturz