Le ragioni di un lungo silenzio
Flavio Giurato è uno dei massimi cantautori della musica italiana. Il disco che ci si propone di recensire è, a detta di molti, il motivo per cui gli fu preclusa per quasi vent'anni la possibilità di incidere altro materiale discografico. Ma per chi scrive, quest'assenza così lunga, dal 1984 al 2002 (anno de "Il manuale del Cantautore"), non è solo il frutto delle scarse soddisfazioni che la Cgd ricevette dalla pubblicazione di un lavoro così ostico e così singolare, destinato all'incomprensione.
Flavio Giurato con "Marco Polo" aveva firmato, in crescendo, il suo terzo capolavoro di fila. Aveva alle spalle la pubblicazione di due concept-album: "Per futili motivi" del 1978 e "Il tuffatore" del 1982. Quest'ultimo il suo disco più conosciuto e celebre (per quanto sia lecito parlare di celebrità) grazie anche ad alcuni passaggi nel programma "Mister Fantasy" di Carlo Massarini.
Insomma, Giurato aveva incasellato tre preziose gemme consecutive, raggiungendo nell'arco di tre dischi una vetta insuperabile. Ma la sua non era una vetta che si poteva trasformare in una "maturità", la sua scrittura non aveva i connotati per diventare né una formula, quindi un qualcosa di collaudato e ripetibile anche in assenza della medesima ispirazione, né tantomeno uno stile, cioè un linguaggio espressivo con leggi interne precise e che potesse, infine, fare scuola e attirare proseliti.
Giurato non aveva la stoffa del maestro, e sicuramente non era interessato ad esserlo. Era piuttosto un genio, illuminato da una luce tanto forte quanto pericolosa, a cui volse lo sguardo proprio mentre essa viveva il suo mezzogiorno. Una luce, sia chiaro, di cui Giurato non fu solo il prezioso testimone, l'emissario, l'interprete. Egli seppe abbandonarsi ad essa, farne parte e darle un corpo. Una luce che brillò forte dalla cima di questa vetta, ma che finì per proiettare su di lui una lunghissima ombra.
Giurato aveva, con il lavoro in questione, dato tutto se stesso, fino a far coincidere con il personaggio e le vicende del disco, non tanto l'artista, ma l'essere umano con tutte le sue debolezze. E quando hai fatto di te stesso il "materiale" della tua arte e sei riuscito a sublimarti in questa aderenza totale, non puoi semplicemente cercare nuove storie da raccontare, perché non ti interessa raccontare "soltanto" storie.
A Giurato non basta un programma, non basta avere un "spunto" narrativo che precede la gestazione artistica. Il suo modus operandi può essere inteso più come una trance, un'estasi in cui quella preziosa luce è presente e informa la scrittura, illumina le intuizioni, dà nuova vita alla sostanza storica saccheggiata. Avere un "progetto" è una condizione necessaria ma non è più sufficiente, se non in presenza di quella guida. E questo fa di lui un cantautore singolarissimo.
L'idea non nasce da un bisogno intellettuale, Flavio non imbocca questo impervio viaggio per inseguire un'ambiziosa operazione culturale (che è uno dei motivi portanti del viaggio linguistico di "Crêuza de mä", dello stesso anno). Il suo viaggio è un modo, forse l'unico, per compiersi, per espiare il proprio tormento. Fino all'astenia.
La parabola artistica di Flavio Giurato, che ha in "Marco Polo" il suo punto massimo, non poteva perciò prevedere alcuna fase discendente, né una serie di lavori minori o dei tentativi di ripetere i fasti e le apparizioni del passato, ma solo un lungo, lunghissimo silenzio. Un silenzio durato appunto diciotto anni. I miracoli non si ripetono.
La dialettica degli opposti
La singolarità di "Marco Polo", la sua irripetibilità, o l'indifferenza commerciale che dovette affrontare, non vanno ricercate nell'utilizzo, da parte dell'autore, di una forma eccessivamente complessa, ermetica, impenetrabile. Non è un lavoro che insegue la rappresentazione di un universo talmente personale da finire col coincidere con la sfera della propria individualità. O, almeno, non solo.
Giurato imbocca, al contrario, la strada della grande narrazione. Sceglie di raccontare le gesta di Marco Polo. L'autore diventa così narratore extradiegetico della vicenda, cioè racconta gli accadimenti dall'esterno della storia stessa. Ma nell'architettare il discorso e la sua evoluzione, nel conferire al racconto una sua personalissima tensione, Giurato innesca quello che è a tutti gli effetti il motore propulsivo di tutto il disco: la dialettica degli opposti. Non canta Marco Polo, ma finisce per esserne agito. Non narra le gesta del viaggiatore veneziano ma vi si confonde, in un gioco di rispecchiamenti e riflessi in cui l'uno si perde nell'altro e l'altro riaffiora nel primo. E Marco Polo nell'essere cantato finisce per accogliere tutto il dolore e l'umanità di un narratore che, nel raccontare di un viaggio, vi s'imbarca.
In "Marco Polo" c'è l'ampio respiro dell'epica, ma che finisce per invilupparsi, senza mai farlo del tutto, attorno a uno strazio personalissimo, che trasuda in ogni piega e in ogni nota. Potremmo dire che senza Marco Polo, senza una vicenda così esemplare, Flavio Giurato non avrebbe trovato la guida necessaria, la forma definitiva in cui modellare il suo incontrollabile desiderio espressivo.
La dialettica degli opposti, questo gioco di forze e di spinte, questa pericolosa oscillazione, si sprigiona perciò fra l'universalità del racconto e l'autobiografia di chi racconta, trovando un suo magico equilibrio. Ma anche fra passato e futuro: il passato della forma-canzone, intesa come modello formale di riferimento, e il suo sbriciolamento. Nel disco sono contenute due fra le canzoni, in senso stretto, più belle della musica italiana, "I punti cardinali" e "Marco e Monica". Mentre l'accoppiata "Le funi"- "Vela e mare" è fra quanto di più ardito si fosse tentato in un disco, quanto di più lontano dalla struttura di una canzone.
È un disco che, nell'essere così unico e diverso, finisce per riecheggiare al suo interno una grande quantità di altre cose. E malgrado quel che possa esservi di innovativo o d'avanguardia, non è mai un disco che fa di questa novità il suo discorso principale. Non si ha mai la percezione che Giurato voglia essere "ostinatamente contemporaneo", o voglia scompaginare dall'interno la canzone con fini distruttivi. È un disco che suona come un classico: c'è un uomo e c'è un viaggio. Tutto il resto coesiste fra le pieghe di una stratificazione che conferisce all'opera la valenza del capolavoro.
Flavio Giurato è un cantautore, ma "Marco Polo" è il disco di un cantautore?
Un compimento
Nei due dischi precedenti l'universo estetico di Flavio Giurato aveva già trovato una sua chiara definizione, fra una sincerità sempre ardente e una certa dose di geniali invenzioni.
È il percorso che dall'esordio di "Per futili motivi", dal piglio più carnale e sanguigno, in cui l'uso del dialetto romano è veicolo di scenari, e sentimenti più arcaici e spartani, porta al secondo lavoro, "Il tuffatore", dove Giurato indossa i panni di un novello Walter Chiari, "l'ultimo dei signori", con l'intima soddisfazione di appartenere a qualcosa di più bello e di esclusivo, in una cronaca sentimentale dove il romanticismo si fa sofisticato, la malinconia struggente e la narrazione s'impenna in dimensioni immaginarie.
Una forma-canzone a tratti teatrale, che si fa carico di un dolore e di una tristezza limpidissimi. Sono liriche in cui Giurato ci abitua alle sue intuizioni a volte sferzanti e altre volte più compassate e tenere, alle sue pose spesso spavalde, alla sua ricerca di una bellezza che sta nel guizzo, nelle improvvise aperture, come quelle del tennista che cerca nell'eleganza del gesto il suo compimento, la stessa eleganza del tuffatore che, prima del salto, "si aggiusta e si prepara di bellezza non comune".
In "Marco Polo" Giurato non rinuncia al suo piglio vulcanico, alla sua carica di elegante pathos, ma sembra assecondare qualcosa di mistico, un richiamo sacrale che opera su di lui un controllo e che avvolge ogni invenzione in uno stato di necessità. Si raggiunge perciò una più elevata capacità di sintesi, all'interno di una scrittura che riesce a essere più misurata e allo stesso tempo più estrema, in un disco che appare più ordinato e, al contempo, più sovversivo, sempre in bilico fra tensione poetica e necessità narrativa.
Se lo splendore delle armonie presenti in "Per futili motivi" si arricchiva ne "Il tuffatore" di ambiziosi arrangiamenti, in "Marco Polo" anche il discorso musicale è impeccabile, per intensità, scrittura ed esecuzione. Un discorso musicale che riesce esso stesso a essere, come vedremo, sostanza narrativa, creando atmosfere, sostanziando il tormento, mettendo in scena sapientemente cambi di rotta, nuove geografie fisiche e mentali, grazie anche al supporto di grandi musicisti come Piero Tievoli, Toto Torquati e Ray Cooper.
Nel vortice
"La teoria dell'orientamento" è il nome della prima parte del disco, il cui inizio è affidato alle dolci note di chitarra e di piano de "I punti cardinali". Ad esse si sovrappone, con la stessa dolcezza, la voce di Flavio che ripete con dei suoni sempre le stesse basculanti note, come in una litania. Poi d'improvviso uno squarcio, le prime epifaniche parole: "Marco Polo è un bimbo, ma non così piccino". È un inizio folgorante: c'è la purezza del fanciullo, vergine dinnanzi al mondo, ma già pronto, già disponibile verso l'ignoto, verso il viaggio, verso l'avventura.
La canzone dispiega, attraverso il meccanismo della ripetizione e della circolarità, una gran quantità di informazioni che riguardano Marco e la sua infanzia: la morte della madre, il negozio delle stoffe, il suo attendere perpetuamente il ritorno del padre ascoltando i racconti dei pescatori. L'incedere del pianoforte accompagna la voce già celestiale di Giurato, mentre brevi e febbrili sono gli interventi di chitarra elettrica. "I punti cardinali" è un capolavoro, una di quelle canzoni capaci di compattare in poche parole un intero mondo.
La circolarità di questo primo brano è destinata, già in "Le funi", a trasformarsi in un vortice. Marco, che era stato escluso dai viaggi del padre, può finalmente partire ("per motivi di cuore"). Giurato ripete per una quarantina di volte lo stesso verso: "Di nuovo i marinai già tirano le funi". Siamo in viaggio, la litania diventa una preghiera in mare, in quella che, attraverso un'interpretazione vocale prodigiosa e intima, non è solo la ripetizione di un verso, ma il rinnovamento, a ogni suo nuovo proferire, a ogni onda e respiro, di un sentimento di rapimento mistico e di stupore. Così, il ricorrere ad una struttura tanto semplice quanto azzardata, non si spiega con una mera intenzione provocatoria: è tutto necessario alla trasmutazione poetica di un'emozione.
La folgorazione avviene al brano successivo: "Vela e mare". Giurato riparte da dove era rimasto, e sulla struttura della canzone precedente ripete ancora lo stesso verso, ma con un piglio più ossessivo, quasi spiritato, a tratti nervoso. Anche gli strumenti si "innervosiscono": la chitarra, le percussioni, il basso. È mare aperto. Fino a un furioso grido: "Terra".
Dopo un'introduzione con armonica dal sapore vagamente country, parte "La Provvidenza", che prosegue con un incedere solenne, quasi aulico, sorretta da un'orchestra d'archi e di ottoni, fra invenzioni tipicamente giuratiane ("la provvidenza è vestita come un attore americano") e immagini dai colori vividi e potentemente simbolici, quasi aspri nel loro rapporto cromatico ("per te Gerusalemme è rossa di sangue e verde di olivi") fino al finale in crescendo ("e Marco Polo il vento nel culo dei cavalli vola") che ribadisce ancora una volta quale è il destino: spingersi fino all'ignoto.
Con "L'Oriente" si conclude la prima parte del disco. È un bellissimo pezzo strumentale che contiene al suo interno tutte le anime del disco: una prima parte raggiante di chitarre sfoca debolmente in un sussurro di tromba, per poi virare al ritmo di tamburelli e congas verso una premonizione dal sapore esotico, fino al finale in cui una voce in inglese riferisce, a mo' di cronaca, le tappe percorse, mentre sullo sfondo la voce di Flavio, che canticchia amabilmente, si accompagna a un misterioso suono simile a uno strofinio di biglie.
La seconda parte del disco, "La crescita", si apre "Nel deserto armeno", luogo dolente dell'attraversamento, troppo grande per non generare inquietudini. Ma è proprio "dal deserto armeno e dalle sue paure (che) Marco trae la forza". La forza per percorrere questo luogo simbolico della crescita. Sono quattro minuti di incubi, ancora una volta un vorticoso susseguirsi di frasi sempre identiche ("basta gli agguati, basta gli inseguimenti, basta le guerre, basta le esecuzioni") in cui la ripetizione è, ancora una volta, sia felice veicolo delle emozioni vissute in questo transito iniziatico, sia misura del tempo trascorso ("passa l'estate, e passa l'autunno, e passa l'inverno, e passano le notti di primavera").
"Il Gran Khan" inizia, come altre canzoni nel disco, in modo compassato e con due righe di testo che assecondano l'esigenza di uno snodo narrativo (avviene anche in "Le funi" e "Nel deserto armeno") dove la letteratura e la canzone si contaminano, in una reciproca parentela che è un altro tassello portante del disco. Un martellante e cadenzato suono di batteria ci apre invece al pathos del grande incontro, quello con il mitico imperatore della Cina.
Con "Marco e Monica" Giurato firma una delle canzoni d'amore più belle mai scritte.
L'amore per l'amata è il medesimo sentimento che Marco prova per la sua città, Venezia. L'amore di chi ha vissuto l'estasi e il tormento e può finalmente ritornare a casa, un amore così puro perché è un approdo, il più dolce, perché è l'approdo di chi è già approdato ovunque e che, dopo aver tutto visto e tutti incontrato, non desidera altro che far coincidere la fine con il punto esatto in cui tutto ebbe inizio. La pioggia, la spinta del fiume, la protezione di una caverna, il lago, il morbido del monte, l'albero del bosco, il peso delle fronde. Gli elementi, forze primigenie e pulsanti, partecipano alla costruzione di uno scenario in cui la più carnale delle azioni si sublima in una lirica dolcissima, in cui l'amore si consuma sulla terra e allo stesso tempo si proietta oltre il muro, verso le stelle. Raramente si era riusciti, in canzone, a fare di un amplesso la più concreta delle azioni e la più magica delle astrazioni. Fra echi biblici e ancestrali ("voluto dalla pioggia, spinto dal fiume, e protetto da una caverna") la descrizione, anche impudica, del rapporto ("e con la stessa erezione, cambiano posizione, i due giovani amanti") con il supporto di un semplice accompagnamento di chitarra e poco altro a dare colore (armonica e tromba su tutto) Flavio raggiunge l'acme della sua arte.
La conclusiva "Marco Polo" è suggello dell'intera vicenda:
Marco Polo lasciava a Venezia una società la cui musica era fondata sulla fede
La fede che uno più uno sia uguale a due
In Oriente il Gran Khan gli dirà che le freccia è diversa dall'arco
E che il bersaglio si muove continuamente
Signori e Signore
Marco Polo
Queste frasi, recitate in vari idiomi, riassumono vertiginosamente tutta l'epopea vissuta e narrata, in cui il "bersaglio", simbolo dell'approdo finale o di un senso ultimo delle cose, è inafferrabile e destinato a muoversi all'infinito.
Fino alle ultime note del pianoforte, che assume tante sfumature e tanti umori. Fino alle ultime parole, tremanti, quasi piangenti, in lontananza:
Marco guarda il mare
Resta ad aspettare
È l'attesa di chi ha tutto visto e tutti incontrato. Cosa c'è di più disperato di chi ha tutto visto e tutti incontrato? E cosa c'è di più disperato di chi, come Giurato, non l'ha potuto fare se non in sogno?
03/01/2016