Scampato in qualche modo al sempre più sconcertante naufragio artistico della musica popolare odierna, ancorato da qualche parte fra il business discografico e una masochistica volontà di autoisolamento integralista, rimane qualche nome di spicco che ha ancora voglia di ritagliarsi una propria rivoluzione. Non che i Butthole Surfers non siano avvezzi a questo genere di cose, chè anzi negli ultimi vent’anni sono stati fra i più propensi a creare qualcosa di veramente personale senza indulgere a eccessivi intellettualismi. A stupirci, questa volta, sono le modalità di quella che viene definita programmaticamente una rivoluzione “bizzarra”. Non una vera rivoluzione, quindi, in grado di lasciare il segno e mietere in un batter d’occhio decine di adepti fra le nuove schiere del rock d’avanguardia; e neppure un lavoro innovativo, visto che la storia della musica passerà chiaramente indenne da questo album e fra un anno facilmente nessuno se ne ricorderà più. Nondimeno, rimane fra i solchi di questo disco qualcosa di tremendamente curioso e impagabilmente interessante, un approccio stilistico che suona come una grassa presa in giro e conserva, nel contempo, un proprio senso di convinto orgoglio professionale.
Ma veniamo al dunque. “Weird revolution” è il travestimento di una band “difficile” che si improvvisa tutto ad un tratto gruppetto da classifica. Tale finzione avviene innanzitutto in maniera consapevole e ben definita, ovvero attraverso la via della dance e, soprattutto, dell’hip hop, che fungono da matrici di base e tendono a conferire un’identità più o meno precisa a gran parte dei pezzi. Fissati i presupposti, già sufficienti a incontrare il disappunto degli ammiratori, esplode lo scandalo vero e proprio: una serie di stereotipi fra i più omologati degli ultimi 10 anni, riprodotti a piacere come impalcature su cui costruire la maggior parte dei brani. Quando ogni credibilità sembra ormai compromessa, la redenzione sopraggiunge salvifica da tutto ciò che rimane da definire: gli elementi di contorno, gli arrangiamenti, l’ampio repertorio di effetti e la produzione avvolgono e stravolgono tutti i luoghi comuni, li rendono irriconoscibili facendosene beffa, li riducono a puro pretesto per sfoggiare una tale abilità in fase di registrazione da fare invidia a molti navigati colleghi.
Sorge immediato il dubbio che, sotto sotto, la volontà di mischiarsi alla massa sottendesse il preciso scopo di elevarsi al di sopra degli astanti con una indimenticabile lezione di stile; eppure lo scherzo è talmente ben congeniato che ogni riferimento sembra del tutto casuale, e i nostri danno l’idea di divertirsi davvero con i loro nuovi stratosferici giochetti musicali: per esempio “Mexico”, frammentato delirio mistico da peiota che fluttua su un ipnotica danza del ventre campionata e ossessiva, o “Intelligent guy” che riesce a rendere morbosa l’atmosfera di un banalissimo hip hop stradaiolo sconquassato da intriganti turbolenze noir. Più classicamente orecchiabili il rockettino catchy di “Dracula from Houston”, irresistibile parodia dei Blur, o il rap decadente di “The shame of life”, scritto a quattro mani con Kid rock e stuprato da sferzanti inflessioni di chitarra elettrica; per tutta risposta, brani come “Shit like that” e “They came in” rimarcano che di un disco commerciale proprio non si tratta: se nel primo il cantante Gibby Haynes somatizza un improvviso attacco di nostalgia per i trascorsi hard con una sequela convulsa di ruggiti e sbraitii, sommersi da un cumulo di pesanti distorsioni e caotici effetti elettronici, il secondo azzarda con disinvoltura l’improbabile connubio tra un motivetto di pianole robotiche, bombardamenti di chitarre elettriche piene di rude enfasi e un accompagnamento pseudo-sinfonico sgraziato e visionario, confezionando un pasticcio di pessimo gusto che è anche impareggiabile trovata kitsch. Da citare ancora “Jet fighter”, messa in scena agrodolce delle ossessioni militaristiche americane, che tormenta una ballata folk piuttosto semplice con affondi sonici e una ritmica al limite della tensione, ma soprattutto “The last astronaut”, pezzo forte del lotto, di straordinaria potenza evocativa, in cui un discorso politico trasmesso a intermittenza da un televisore è disturbato da un melanconica litania di pianoforte che stride con un patchwork di rumorismi artificiali disparati.
Opera all’insegna della più esplicita ambiguità, trionfo della precisione artificiale sul gusto estetico classico, “Weird revolution” gioca la carta vincente di una produzione sopra le righe che non si concede un solo momento di debolezza. Curiosamente, uno dei pochi dischi secondari da ascoltare a tutti i costi.
26/10/2006