Ormai l'hip-hop è tornato a respirare aria nuova e in molti se ne sono accorti. Numerosi gli artisti e i collettivi che in questo nuovo millennio stanno facendo il diavolo a quattro cercando di rivoluzionare il genere. Fermo restando l'inarrivabile prodigio dei cLOUDDEAD, numerosi ormai i progetti che possono dirsi almeno interessanti o, in qualche caso, notevoli. È quest'ultimo, di certo, il caso dei Kill The Vultures (da Minneapolis), appena un anno fa autori di uno degli esordi più brillanti degli ultimi anni. Jazz, blues, industrial, e ovviamente rap, tutto fuso in un blocco sonoro magmatico e seducente, sbilenco ed incazzato, poetico e incendiario. Roba difficile da ripetere, tanto che con nostro vivo piacere li ritroviamo alle prese con una materia che osa movimentare le carte in tavola, rischiando sulla propria pelle, senza pregiudizi.
Suono più ruvido, rumoroso, dall'appeal quasi "domestico", ma anche più ripetitivo e meno visionario di quello che ci aveva abbagliati appena un anno fa. Anche loro, dopo tutto, hanno il sacrosanto diritto di correre dei rischi, tant'è che, a dirla tutta, questo "The Careless Flame" potrebbe anche essere una sorta di prova generale per nuove, future meraviglie. Ancora mezz'ora e poco più di musica, quasi a voler tracciare un'immaginaria linea di coerenza interna. Mezz'ora intensa, come è giusto che sia quando si hanno le palle per evitare riempitivi e chincaglierie varie. L'ipnosi narrativa di "Moonshine" ha un fascino quasi dark, sontuoso nel suo strisciare epidermico. Il rituale circolare di "Dirty Hands" tenta, invece, la carta dell'estenuazione per esorcizzare un suono sempre più convinto delle sue capacità terapeutiche, sciamaniche, liberatorie. E quando in "The Spider's Eye" la matrice jazz divampa in accesso minimalismo tribaloide, il senso di quello che ormai può tranquillamente definirsi New Wave Of Hip Hop finisce per assumere contorni chiari e definitivi.
Ma se l'approccio è ora più che mai ossessivo e torrenziale, una traccia come "Days Turn Into Nights" spiazza (e, in fondo, lascia, come dire?, freddini e annoiati…) proprio per quel suo posizionarsi agli antipodi, con quella sua chitarra sibillina e indianeggiante e quel rimuginare tra i denti parole come se fossero tabacco da masticare. Gli scenari mastodontici e dal vago respiro blaxploitation di "Strangers In The Doorways" incutono, invece, il timore che ci meritiamo. E cosa potrebbe diventare questa roba se degnamente remixata? Provate ad immaginarlo, mentre scorre la trascurabile "Birchwood". In "The Wine Thief", un'atmosfera noir, il beat che un contrabbasso chiude nel suo cerchio, e ancora l'idea della transitorietà di un lavoro, in fin dei conti, statico laddove l'omonimo era dinamico e alchemico. Ancora il jazz e un senso di malinconia incombente ("Vermillion"). Poi, il fruscio di chissà quali vecchi vinili, un sax burlone, percussioni metalliche e un'unica, grande domanda: "How Far Can A Dead Man Walk".
In definitiva, un disco "ponte" (comunque interessante), gettato verso chissà quali prospettive.
25/09/2006