Kill The Vultures

Kill The Vultures

2005 (Jib Door)
hip-hop

Pericolosissimo questo amore. Stragi preannunciate che si ripetono, a San Valentino. Difficile immaginare una traccia d'apertura più rappresentativa di "Lovin' You Dangerous", per un disco che scorre come un'auto di qualche malavitoso di anni passati attraverso una metropoli grigia, fumosa e spigolosa al contempo. "Kill The Vultures", atto primo e omonimo, è un album di rara intensità, una proposta nuova di hip-hop bianco, da Minneapolis quattro ragazzi deformano e storpiano jazz, blues e rap.

Troppo facile dire che centrifugano, questi sono abilissimi alchimisti. Il beat diventa strumentale, sbilenco e condito da fiati, cose da Mardi Grass a New Orleans con un sacco di livore da far esplodere, "Hidden Signal" è una, perdonate l'abusato termine, scheggia che trafigge e irrompe nelle orecchie con fragore. Ma il ritmo è incalzante, lo scenario cambia rapido e si fa sfuggente, si entra in un ideale club pieno di sigarette accese e fumanti, di donne con occhi come armi e borsette calibro 9, "The Vultures" è una delle canzoni dell'anno. Un contrabbasso morbido e seducente per un attimo coperto da percussioni metalliche ci porta verso un flow sacrale, cadenzato e lento, una preghiera nichilista e oppressiva dipinge scenari cupi per gli stessi membri del collettivo. Liriche nere quelle di Nomi, Crescent Moon e Advizer, un noir che per la prima volta si fa accompagnare da un hip-hop retrò ma mai così nuovo.

È un ritorno alle origini nelle parole, che tornano ad avere connotati politici e sociali, che tornano a raccontare le inquietudini quotidiane, "7-8-9" è l'ultima difesa di quello che non possono rubarci, dei sogni: "These dreams are mine, these dreams you can't have". Così come "Good Intentions", gemella nei contenuti, ma opposta nel metodo: la prima è una assurda cavalcata blues-core, la seconda una lentissima profusione di bassi e fiati, con un arsenale di parole a enunciare false ideologie e soprusi quotidiani. Anatomy, la mente dietro alla produzione delle basi, si dimostra uno dei personaggi più interessanti nell'ambiente, suoni sporchi e perfetti, gusto retrò e fantasia a profusione.

Trentuno minuti in tutto, un album breve che riserva ancora furore ed eleganza. È forse questo che connota così positivamente la proposta dei Kill The Vultures: hanno saputo offrire, grazie a questa commistione di stili, un nuovo spessore all'hip-hop, uno spessore elegante e raffinato nelle musiche, creando un immaginario metropolitano degno delle scale di grigi di Sin City. "Sick Days Are Upon Us Now" e "Beasts Of Burden" sono sporchi e velenosi rigurgiti urbani, sincopati e rutilanti mentre ripetono il loro mantra rugginoso, come provenissero davvero da un'altra epoca.

Ma c'è anche tempo per un divertissement in "Howl n' Heal", dove d'improvviso potrebbero apparire Jim Hall, McCoy Tyner ed Elvis Jones a suonare questa base, vero climax jazzistico dell'album a stendersi sotto l'incessante fiume vocale che ricopre tutto il disco. E si chiude, con una tromba seducente campionata che tenta di ipnotizzare assieme a percussioni per la prima volta secche e marcate, "Behind These Eyes" è una canzone che mantenendo le sonorità dell'album se ne allontana leggermente, mostrando accenni di canto, in un'atmosfera dilatata che ricorda per certi versi alcune ambientazioni di casa cLOUDDEAD guardate attraverso un filtro in bianco e nero, con una chiusura affidata a un giro di piano che non sarebbe stato fuori luogo al Plugged Nickel una quarantina di anni fa…

Spiazzante, è quello che viene in mente al termine di ogni ascolto, ogni volta è un piacere differente nell'ascoltare uno degli album più affascinanti e nuovi di questo 2005. Avanti così.

Tracklist

1. Lovin' You Dangerous
2. Hidden Signals
3. The Vultures
4. 7-8-9
5. Good Intentions
6. Sick Days Are Upon Us
7. Beasts Of Burden
8. Howl n' Heal
9. Behind These Eyes

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