La scoperta. Che cosa c’è di più affascinante del momento in cui si rivela quell’impossibile corrispondenza? Basta il riverbero di una nota, un’inflessione della voce, e ogni cosa sembra investita a un tratto da una luce imprevista. Non puoi fare a meno di rimanere incollato a quell’attrattiva, che ti lancia nell’esplorazione dell’orizzonte spalancato davanti ai tuoi occhi.
"Five Years" è l’occasione per una scoperta entusiasmante. La scoperta di un artista eccentrico e acuto come pochi altri tra quelli apparsi negli ultimi anni: John Vanderslice, songwriter raffinato e ricercatore maniacale di suoni al tempo stesso.
Nonostante abbia ormai cinque album alle spalle, dalle nostre parti il suo nome è ancora un culto frequentato da un numero esiguo di adepti. Non è un caso, quindi, che la Barsuk Records abbia deciso di concedere anche ai più distratti la possibilità di fare la sua conoscenza attraverso il perfetto biglietto da visita dei tredici brani di "Five Years", sorta di anomalo greatest hits senza hits.
Una passeggiata notturna lungo Mulholland Drive insieme allo spettro di David Lynch, una gita turistica in una raffineria clandestina di stupefacenti, un’incursione lungo le barricate dei mujahidin, un viaggio tra vecchie pareti rese irriconoscibili dagli scaffali Ikea… il mondo di John Vanderslice è fatto di immagini fulminanti che sembrano fatte apposta per imprimersi nella memoria.
Dopo aver attraversato gli anni Novanta come componente dei misconosciuti MK Ultra, il songwriter americano, cresciuto tra Florida e Georgia per poi stabilirsi a San Francisco, ha debuttato come solista soltanto nel 2000, ma da allora ha sfornato album al ritmo vorticoso di uno all’anno. "Non ci vedo nulla di strano", osserva sornione, "è il mio lavoro a tempo pieno".
All’inizio, Vanderslice ha conquistato persino la ribalta della cronaca negli States, inventandosi la storia di una persecuzione legale da parte della Microsoft per avere intitolato uno dei brani del suo disco d’esordio "Bill Gates Must Die": una sarcastica invettiva che si scaglia senza troppi giri di parole contro Mr. Windows, incolpandolo della dipendenza dalla pornografia in rete del protagonista del brano…
Da sempre appassionato di tecniche di registrazione, nel 1997 Vanderslice ha dato vita a San Francisco agli studi Tiny Telephone, da cui sono usciti dischi di gente come Mountain Goats, Death Cab For Cutie, Okkervil River e Spoon. Ed è proprio la cura ossessiva per il suono a rappresentare il fondamentale elemento di distinzione della musica di John Vanderslice rispetto ai consueti canoni del cantautorato indie americano, troppo spesso tentato di confondere la bassa fedeltà con una trascuratezza fine a sé stessa. Il suo approccio, invece, è stato definito efficacemente come "sloppy hi-fi": un suono capace di combinare la meticolosità con l’imperfezione, senza mai perdere quella "pulsione distruttiva" che Vanderslice considera essenziale per scongiurare l’appiattimento.
In "Five Years" si passa così dai saturi riff elettrici di "Speed Lab" e "Bill Gates Must Die", entrambe risalenti al debutto solista "Mass Suicide Occult Figurines", alle più sofisticate stratificazioni di tastiere analogiche che dominano i brani tratti dagli album successivi, da qualche parte tra i R.E.M. di "Reveal" e certe suggestioni dal retrogusto bowiano. Uno stile che ha probabilmente raggiunto la sua armonia più compiuta nel penultimo "Cellar Door", con un’ossatura elettroacustica dove sono le tastiere a suggerire gli spunti melodici, inserendosi su un tappeto di pulviscolo elettronico di stampo radioheadiano. Tra accordi di piano, effetti chitarristici ed occasionali inserti di fiati, la voce dai riflessi metallici di Vanderslice declama appassionata le sue vivide immagini cinematografiche.
L’iniziale "Up Above The Sea", con il suo moog scandito come un codice Morse verso il cielo, introduce subito in un’atmosfera visionaria, raccontando le riflessioni di un cacciatore riluttante tra i clangori di percussioni dall’andatura marziale.
Il soffio avvolgente delle morbide tastiere punteggiate di aghi di "Trance Manual" lascia senza fiato, mentre su un battito appena accennato la partitura sintetica degli archi sembra un miraggio nella calura: a Vanderslice bastano pochi versi per tratteggiare l’incontro tra un giornalista al fronte e una prostituta irachena vestita come la "bandiera di una nazione minacciosa", ed è un capolavoro di grazia nella polvere della guerra.
Il fantasma dell’11 settembre, che percorre tutto l’ultimo album del songwriter americano, "Pixel Revolt", compare anche tra i fraseggi di mellotron di "Exodus Damage", ispirata nel titolo a un verso dell’amico David Berman dei Silver Jews: un dialogo serrato tra un militante antigovernativo e il suo misterioso committente, in cui le ipotesi di complotto che aleggiano tra le immagini degli attentati suicidi non sono altro che un falso videogame di rivoluzione.
Il respiro sgranato di "Pale Horse" rappresenta per Vanderslice un vero e proprio "studio sulla distorsione", ispirato addirittura alle tecniche pittoriche di Paul Klee. A volte, però, l’ossessione per i dettagli fa correre a Vanderslice il rischio di innamorarsi di un suono fino al punto di trascurare il suo equilibrio complessivo nel contesto della composizione: è proprio questa tentazione il limite maggiore della sua musica, ma il songwriter di San Francisco la esorcizza con autoironia nell’ode feticista a un registratore a quattro tracce di "Me And My 424".
Come testimonia "My Old Flame", madrigale dolente ispirato ai versi del poeta americano Robert Lowell, la scrittura di Vanderslice non nasconde le proprie ascendenze letterarie. La fuga è un’illusione romantica da cullare, ma finisce inevitabilmente nello squallore da Holiday Inn di "The Mansion". I sogni si agitano inquieti, ma rimangono intrappolati tra i ghiacci dell’Antartide, isolati dal mondo come in "Keep The Dream Alive". La condizione umana è fatta di cuore e lacrime, canta Vanderslice in "Pale Horse", e non si accontenta delle illusioni: "From the haunts of daily life/ Where is waged the daily strife/ Common wants and common cares/ Cuts the human heart with tears".
Il viaggio nel tempo è solitario, ammonisce uno dei titoli più evocativi del disco: ma il viaggio nel tempo offerto da "Five Years" è un percorso in cui la compagnia dell’animo pungente e tormentato di John Vanderslice non lascia mai da soli. Non stupitevi, allora, se dopo l’ascolto di "Five Years" vi ritroverete a completare uno dopo l’altro tutti i tasselli mancanti della sua discografia: è quello che succede sempre quando si cede al fascino della scoperta.
14/03/2006