Darren Hayman, nella seconda parte degli anni Novanta, aveva raggiunto, quale leader e mente pensante degli Hefner, anche grazie al disinteressato ed entusiasta contributo del mai troppo rimpianto dj radiofonico John Peel, una certa fama e popolarità quando, all’alba del nuovo millennio, con una mossa inaspettata e non poco azzardata, causata da un subitaneo quanto inspiegabile amore per tastiere e sintetizzatori vintage, aveva deciso di sciogliere la band e dare il via a una serie di progetti per lo più un po’ sconclusionati e privi di costrutto che lo hanno portato, nel corso degli anni a cimentarsi con il synth-pop e l’elettronica (The French) e, successivamente con una carriera solista avara di picchi e di successi e piuttosto in sordina.
Il nuovo lavoro, scritto e inciso in pochi giorni, in uno studio situato sopra un negozio di strumenti musicali e con l’apporto di una nutritissima schiera di ospiti; nonostante il titolo possa essere fuorviante, è, a tutti gli effetti, il suo secondo album solista.
Come nei precedenti lavori, anche in “Secondary Modern” il punto di forza della scrittura del nostro rimangono, ancora una volta, i testi, così concreti e coinvolgenti da sembrare tanti piccoli bozzetti di vita vissuta: racconti brevi ma dettagliatissimi, degni di un Carver della provincia inglese. E così, nelle nuove dodici canzoni qui contenute, si passa da storie d’amore tra professori delle scuole superiori a serate spese al pub a partecipare a quiz di quartiere, da ragazze che si chiamano Rochelle a uomini che non riescono ad accettare l’idea di una separazione, fino ad arrivare a racconti di partite di biliardo svoltesi negli anni Ottanta e inni elevati alla famosa polo con il coccodrillo. Il tutto con lo humor e la leggerezza che ha sempre contraddistinto la scrittura di Darren Hayman.
Musicalmente, poi, questo album risulta un po’ la quadratura del cerchio che Hayman andava cercando da ormai troppo tempo: il ritorno prepotente del suono “Hefner” (una gustosa miscela di britpop, country e folk, per intenderci), perfettamente amalgamato con un uso delle tastiere e dell’elettronica che, seppur in maniera più sommessa e meno invadente rispetto alle precedenti deludenti prove, rimangono sempre piuttosto in evidenza.
Se qualche caduta di tono si può riscontrare (il terrificante intermezzo di sassofono nell’iniziale “Art And Design”, o l’arrangiamento troppo anni Ottanta di “The Wrong Thing”), i brani, per lo più, sono di ottima fattura: anche se i picchi risultano “Let’s Go Stealing”, che sarebbe potuta essere una classica canzone degli Hefner, ed “Elizabeth Duke”, dove l’ukulele e un delicato violino convivono in perfetta armonia con un elegante arrangiamento basato sui sintetizzatori, in tutti i brani risulta evidente quanto lo stile musicale di Hayman si sia arricchito.
Dal synth-pop di “Pupil Most Likely”, impreziosito dal dolcissimo suono del corno francese, fino al mandolino che la fa da padrone in “Higgins vs Reardon”, o ai brani più smaccatamente country-folk, quali “She’s Not For Me”o “The Crocodile”, quasi tutto il lavoro risulta efficace, misurato ed equilibrato.
In definitiva, un album convincente e coinvolgente che regala, a chi abbia avuto ancora la pazienza di aspettarlo, un Hayman di nuovo in forma, capace di coniugare la sua smania per il pop sintetico con la grande capacità cantautorale e la passione folk degli esordi.
E recuperare un talento minore, ma valido e prolifico come Darren Hayman, alla causa del pop inglese non è, di questi tempi, un risultato da sottovalutare.
04/01/2008