I Silverchair sono stati e sono vittime del grunge. Facili vittime sacrificali, perché giovanissimi e lontanissimi com'erano nella loro Australia. Snobbati per l'essere diventati a torto o a ragione eredi di un qualcosa che stava scomparendo, copie sbiadite e pallide dei Nirvana d'annata. Noi avevamo i Verdena, il mondo aveva i Silverchair. E dire che di album carini ne hanno fatti: carini, per l'appunto, perché non si può andare oltre nel definire la discografia altalenante di una band adolescenziale.
Alcune canzoni le abbiamo infilate nelle compilation casalinghe per farci da colonna sonora di vacanze o ordinaria vita quotidiana. Poi c'era stato il doppio "Neon Ballroom", che era stato il loro primo sdoganamento musicale e che aveva ricevuto giuste critiche positive; si erano lasciati dietro l'immaginetta di Kurt Cobain e si erano ritrovati a suonare una musica più sulle corde dei 2000 che erano arrivati.
Sembrava l'inizio di qualcosa di nuovo, ma succede l'imprevisto: Daniel Johns compare sempre più smagrito, diagnosi fantasiose su diagnosi fantasiose rincorrono le news dei giornali, depressioni e pressioni esagerate sulle spalle di un ragazzo da 65 chili. Poi i chili scendono, l'anoressia per un ragazzo è roba che vende sui giornali e lui si nasconde. Esce anche "Diorama" nel 2002, ma nel giro di un anno si ferma tutto. Il leader, ex copia australe di Kurt Cobain, non ha più voglia di parlare al mondo e il gruppo si scioglie non ufficialmente.
Qualche notizia qua e là nel corso degli anni, poi il definitivo ritorno prima sui palchi dei festival europei con un nuovo look a metà tra Chris Martin e Justin Timberlake e poi con l'annuncio di un nuovo album: "Young Modern". Preambolo un po' lungo, ma necessario per inquadrare meglio quello che stiamo raccontando.
Difficilmente - e passiamo finalmente alla musica - "Young Modern" ce lo ricorderemo tra qualche anno: un po' perché non si riesce a capire quale sia il passo avanti rispetto a "Diorama", che già aveva accelerato la composizione di Daniel Johns verso direzioni più chamber pop, aggiungendo qualsiasi cosa che suonasse orchestrale, dagli archi ai fiati. Costruzioni pretenziose, che solo in qualche rara eccezione riuscivano a risultare credibili e non il sogno segreto di un bambino viziato. Così anche in "Young Modern" ritroviamo le pompose orchestrazioni, zucchero filato montato a fuffa - ci si perdoni il giro di parole. Che poi tutto sia fuffa siamo i primi a negarlo, perché di passaggi notevoli stando larghi ce ne sono: piace l'opening "Young Modern Nation", che è il brano più vicino alle atmosfere di "Neon Ballroom” in versione più dancey. Ha un groove particolarmente coinvolgente e un ritornello che aspetta qualche secondo prima di esplodere: perfetto inno da stadio, quale è stato del resto.
Piace certamente anche "If You Keep Losing Sleep", in cui sono palesi le assonanze con i Queen per via di quelle pungenti frecciate da art-rock mescolate a devianze progressive-rock. Poi in mezzo c'è molta medietà, brani sentiti chissà quante volte da chissà quante altre band: l'andamento in crescendo della pop ballad "Straight Lines" è roba da cugini dei Coldplay. Così come non basta inventarsi "Waiting All Day" per evitarsi il paragone a perdere con Maximilian Hecker. Così come non si può sfuggire ai peggiori Rolling Stones ascoltando "Mind Reader".
E infine ci sono cose lasciate a metà. Prendete "Low": un riff davvero coinvolgente, certamente figlio di roba inglese anni 80, ma capace comunque di mordere, viene abbandonato per costruirci sopra qualcosa che dire incomprensibile rende l'idea.
Concludiamo per etichetta con un "bentornati", ma ci teniamo le riserve del caso.
19/08/2007