Quando due anni fa uscì "Burlesque", primo album degli inglesi Bellowhead, la stampa musicale di mezzo mondo gridò al miracolo. Una big band con archi e ottoni che stravolge i traditional anglosassonni era qualcosa di inaudito in campo folk. L'estro del frontman Jon Boden, poi, sembrava promettere grandi cose per il futuro.
Con "Matachin" gli undici Bellowhead conservano ed espandono la formula del precedente Lp: arrangiamenti raffinati e complessi, ritmi spigliati, suggestioni est-europee, bandistiche, jazz. Nessun elemento rock, ma un'atmosfera calda, avvolgente e velatamente malinconica.
C'è meno teatralità nelle tredici nuove tracce: meno funambolismi e più eleganza. Si è persa per strada un po' di grinta, guadagnandoci di molto in maturità. Maturità che si riflette in primis sulla struttura dell'album: ogni canzone si replica in una breve vignette che la mostra sotto un'altra prospettiva. Apre e chiude "Fakenham Fair", prima in sognante veste cameristica, poi soltanto rievocata dal tintinnio di un carillon.
Si mescolano nell'album sincopi reggae e fughe fiatistiche ("Kaafozalum/The Priest's Miss"), danze e filastrocche, canti di lavoro e coretti pre-jazz ("Cholera Camp", di Rudyard Kipling). Il clima è giullaresco e i pochi episodi pensosi sono rasserenati da trovate ritmiche frizzanti, ma mai caciarone.
Apici assoluti, oltre alla già citata "Fakenham Fair", la bandistica "Spectre Review" (un arrangiamento diverso per ogni strofa) e la strumentale "Trip To Bucharest/The Flight Of The Folk Mutants", con archi e ottoni che si avvolgono su sé stessi a creare una tensione quasi cinematografica.
Manca poco al disco per essere un capolavoro: forse proprio un po' di quella pirotecnica sfrontatezza che era croce e delizia del precedente.
29/09/2008