Bellowhead

Bellowhead

Al circo della tradizione

La band più incendiaria della scena tradizionale inglese. Tra folk, jazz, suggestioni bandistiche ed est-europee

di Marco Sgrignoli

Da quanto tempo non si smuovono le acque nel campo del folk celtico? Senza contare i falsi allarmi e le ibridazioni molto "di confine", gli ultimi nomi ad essere usciti dal circuito degli appassionati sono stati Eliza Carthy e Afro Celt Sound System: si parla di quasi dieci anni fa.
È una notizia dunque se "Burlesque", primo album degli inglesi Bellowhead, viene salutato dalla stampa musicale internazionale come il disco di musica tradizionale inglese più significativo dai tempi di "Liege and Lief" (Songlines).

È una rivoluzione ben diversa da quella dei Fairport Convention. Se non altro perché di rock nella musica dei Bellowhead non c'è alcuna traccia. Ci si trovano piuttosto la musica balcanica e tzigana, il piglio focoso da big band del periodo swing, perfino alcune trovate ritmiche dell'era disco. Già Blowzabella e Brass Monkey avevano sperimentato nel folk anglosassone arrangiamenti ricchi e atipici una ventina d'anni prima, ma la teatralità, la carica dei Bellowhead sono un'assoluta novità.
Si tratta poi di una rivoluzione dall'interno: gli undici (undici!) componenti del gruppo sono tutti musicisti rodati nel campo del folk tradizionale. I due mastermind John Spiers e Jon Boden hanno alle spalle un discreto numero di dischi pubblicati in coppia, il chitarrista/mandolinista Benji Kirkpatrick è figlio di John Kirkpatrick, leggendario fisarmonicista di Steeleye Span, Albion Band, Brass Monkey.
Quella dei Bellowhead è infine anche una rivoluzione meno rivoluzionaria. A ormai quattro anni dal loro esordio su Ep, gli unici a suonare come i Bellowhead sono ancora i Bellowhead. Non c'è stata, e forse non ci sarà, alcuna ondata di prosecutori o imitatori.

E.P. Omonymous esce nel 2004, pochi mesi dopo la fondazione della band. Fin dall'iniziale "Rambling Saylor" è chiaro che la proposta ha dell'inaudito: la melodia semplice e antica del traditional inglese è avvolta da spire ascendenti d'archi, stretta nel fuoco incrociato di un botta-e-risposta fiatistico che si contorce e si intreccia come neanche i Tower Of Power. In "Copshawholme Fair" il cantante Jon Boden veste i panni di un saltimbanco e la musica prende un passo malinconico e zingaresco: fisarmonica, grancassa e fumi minori armonici forgiano un'interpretazione del tutto diversa dall'incanto medievaleggiante che fu nel 1970 quella degli Steeleye Span.
Nelle due tracce strumentali la formula mostra un po' la corda, scadendo in lungaggini e ritmi upbeat eccessivamente linerari, ma i pienissimo della solare "Prickle-Eye Bush" provvedono a chiudere in gloria un Ep che suona come un monito: tenete gli occhi ben aperti, ne vedrete delle belle.

Le belle arrivano due anni dopo, con l'Lp Burlesque. La copertina ritrae una danzatrice mascherata da giullare, una colomba in mano al centro di un cerchio di fiamme. I toni si sono fatti ancora più circensi, come le incendiarie "Rigs of the Time" e "Jordan" provvedono subito a dimostrare.
L'onestà è fuori moda, queste sono le vesti del tempo. Si apre con una girandola fiatistica "Rigs of the Time", un inno polemico alle truffe e ai sotterfugi dei commercianti (in effetti, rig significa tanto veste quanto imbroglio). Su un incalzante 5/4 à la Dave Brubeck si passano in rassegna le ladronerie e le misere scuse del fornaio e del macellaio, del sarto e del lattaio, fino al proposito finale:

Il miglior piano che riesco a pensare
È di portarli fuori tutti quanti, col vento in burrasca
Quando si alzeranno in piedi la nuvola esploderà
E il primo a cadere sarà il più grande e il più vecchio di questi bricconi

La burrasca pare animare "Jordan". Spavalde, ma vibranti di inquietudine, le voci Boden e della violoncellista Rachael McShane stravolgono la placida melodia in maggiore della versione tradizionale, tingendola di armonie oscure, sferzanti contrappunti di ottoni, ostinati d'archi.
Poi ballate struggenti e antiche, con apparenti a cappella ammantati di ricami acustici; e numeri esplosivi come "Fire Marengo", praticamente funky. Meglio questa volta gli strumentali. Alcuni ricadono, in principio, in un fastidioso incedere da sagra, ma ne svicolano con un caleidoscopio di invenzioni, intrecci e timbri che non vuole saperne di farsi prevedibile.
La stampa grida al miracolo, ma qualche grossolaneria ritmica, specie nella condotta dei bassi, lascia la speranza che la band possa fare ancora di meglio.

Con Matachin i Bellowhead superano il periodo di rodaggio e rivedono parzialmente la formula: meno funambolismi e più eleganza. La raggiunta maturità si riflette in primis sulla struttura dell'album - ogni canzone si replica in una breve vignette che la mostra sotto un'altra prospettiva. Apre e chiude "Fakenham Fair", prima in sognante veste cameristica, poi soltanto rievocata dal tintinnio di un carillon.
Si mescolano nell'album sincopi reggae e fughe fiatistiche ("Kaafozalum/The Priest's Miss"), danze e filastrocche, canti di lavoro e coretti pre-jazz ("Cholera Camp", di Rudyard Kipling). Il clima è giullaresco e i pochi episodi pensosi sono rasserenati da trovate ritmiche frizzanti, ma mai caciarone.
Apici assoluti, oltre alla già citata "Fakenham Fair", la bandistica "Spectre Review" (un arrangiamento diverso per ogni strofa) e la strumentale "Trip to Bucharest/The Flight of the Folk Mutants", con archi e ottoni che si avvolgono su sé stessi a creare una tensione quasi cinematografica.
Manca poco al disco per essere un capolavoro: forse proprio un po' di quella pirotecnica sfrontatezza che era croce e delizia del precedente.

Cosa sperare per il futuro? Che il gruppo trovi il modo di conciliare tutte le sue anime: innovativa e tradizionale, signorile e circense, tragica e sorniona.

Bellowhead

Discografia

E.P. Omonymous (Westpark, 2004)

6,5

Burlesque (Westpark, 2006)

7

Matachin (Navigator, 2008)

7.5

Pietra miliare
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