Come già nell’ormai lontano 2000, Cat Power torna a cimentarsi con un album composto quasi interamente da cover. Non è però soltanto il dato temporale a separare questo articolato, personalissimo e per certi versi sorprendente “Jukebox” da “The Covers Record”: otto anni fa Chan Marshall era un’artista ancora nella fase iniziale della sua carriera, anche se da poco reduce dagli unanimi consensi conseguiti dal desolato incanto di “Moon Pix”; oggi invece fa uscire questa nuova raccolta di cover in coincidenza con il suo trentaseiesimo compleanno e, soprattutto, a due anni di distanza da quel “The Greatest” che delineava una svolta artistica piuttosto decisa in una chiave di folk-blues elettrico e connotato da una sorta di ritorno alle origini (musicali e autobiografiche) del sud degli Stati Uniti.
È proprio da lì che parte “Jukebox”, lavoro quasi inevitabilmente influenzato dalle recenti predilezioni per sonorità bluesy molto classiche, nelle quali Cat Power continua ad esprimersi con la consueta classe, seppur lasciando minor spazio al fascino sottile e misterioso per il quale è stata sempre meritatamente applaudita. Tuttavia, sarebbe semplicistico pensare a questa raccolta come a un mero esercizio di stile consistente nella riproposizione di brani altrui in forma prossima a quella di “The Greatest”: innanzitutto perché quando si ha a che fare con un’interprete dalle capacità espressive così raffinate non si può frettolosamente bollare come “inutile” un disco di cover per il solo fatto di essere tale, e poi perché la scelta dei brani e degli autori da reinterpretare è tutt’altro che banale e anzi testimonia una ricerca approfondita e in linea con gli approcci sonori dell’ultimo periodo.
Se si eccettuano, infatti, l’interpretazione vellutata di “New York” e la declinazione al femminile del classico di Hank Williams “Ramblin’ (Wo)Man”, Cat Power si cimenta qui con originali impegnativi, che in alcuni brani la riportano alle origini della tradizione nera americana. È questo il caso della parte centrale del lavoro, che passa dal cuore soul di “Aretha, Sing One For Me”, agli omaggi a due icone nere recentemente scomparse, James Brown (“Lost Someone”) e la pioniera del Mississipi blues Jessie Mae Hemphill (“Lord, Help The Poor And Needy”). Sono questi i brani che risentono in maniera più netta della svolta sonora della Marshall, risultando un po’ troppo ruvidi e polverosi per le sue qualità vocali, al contrario di quanto avviene nella soffusa rilettura pianistica di Billie Holiday in “Don’t Explain”, primo brano del trittico femminile finale, che comprende anche i tributi a Janis Joplin e Joni Mitchell, apprezzabili formalmente ma tutto sommato privi di slancio e di rimarchevoli potenzialità di coinvolgimento.
Quando invece con la forma impeccabile si coniuga l’intensità interpretativa i risultati sono decisamente migliori: così quando Cat Power cala le sue sinuose movenze vocali in melodie ovattate, che avvolgono nel tiepido abbraccio di “Silver Stallion” e, soprattutto, nei due brani da lei stessa firmati, ovvero l’auto-cover di “Metal Heart” e l’inedito “Song To Bobby”, entrambi caratterizzati da ammalianti tocchi di pianoforte e ritmiche più smorzate, che fanno risultare la prima ancora più matura ed efficace dell’originale compreso in “Moon Pix”. Brani come questi, dal punto di vista strumentale e compositivo, esaltano lo splendore di un’interprete che continua a temere pochi paragoni; peccato soltanto che ultimamente regali solo sprazzi incostanti della sua classe.
E, appunto, tra lampi di classe cristallina, interpretazioni pregevoli e passaggi incapaci di lasciare il segno, scorre questo personalissimo jukebox di un’artista di nuovo lontana dai vertici della sua carriera, ma ormai a proprio agio nel nuovo ruolo di consumata blueswoman, adesso rivestito con maggior equilibrio e con la grazia espressiva di sempre.
18/01/2008